RICHARD MATHESON
IO SONO LEGGENDA
(I Am Legend, 1954)
PARTE PRIMA
Gennaio 1976
1
Nei giorni come quello, in cui il cielo era coperto di nuvole, Robert Neville non era mai sicuro di quanto mancava al tramonto e a volte li trovava già nelle strade, prima di riuscire a rientrare in casa.
Se non avesse avuto tanta avversione per la matematica, avrebbe potuto calcolare l'ora approssimativa del loro arrivo; invece, si atteneva ancora all'antica abitudine di regolarsi sul colore del cielo per stabilire la fine del giorno, e, nei pomeriggi senza sole, quel sistema non funzionava. Perciò, quando il cielo era grigio, non osava allontanarsi troppo dalla sua abitazione.
Fece il giro della villetta nel cupo grigiore del pomeriggio; dall'angolo delle labbra gli penzolava una sigaretta, che si lasciava dietro una sottile scia di fumo. Controllò ogni finestra per vedere se qualcuna delle tavole era staccata. Dopo gli assalti più violenti, molte assi rimanevano scheggiate o danneggiate in altro modo e bisognava sostituirle. Un lavoro che odiava. Ma quel giorno ne trovò solo una traballante. Davvero una bella fortuna, si disse.
Terminato l'esame della facciata, andò in cortile per dare un'occhiata alla serra e alla cisterna dell'acqua. A volte cercavano di danneggiare la struttura di sostegno della cisterna o di piegare e rompere i tubi che venivano dalla pompa. A volte lanciavano sassi al di sopra dell'alta recinzione che circondava la serra e di tanto in tanto riuscivano a sfondare la rete che la proteggeva in alto; allora Neville era costretto a sostituire qualche pannello di vetro.
Ma la cisterna e la serra, quel giorno, non apparivano danneggiate.
Rientrò in casa per prendere il martello e i chiodi e, nell'aprire l'uscio, scorse la propria immagine nello specchio che aveva inchiodato sul pannello, un mese prima. L'immagine era distorta, lo specchio era incrinato. Al primo attacco, le taglienti schegge di vetro argentato sarebbero cadute a terra. "Cadano pure" si disse Neville. "È l'ultimo specchio che inchiodo qui fuori. Non servono a niente, gli specchi. Meglio appendere una collana d'aglio. L'aglio è sempre efficace".
Scivolò lentamente nel denso silenzio del salotto, si diresse a sinistra per imboccare il breve corridoio e poi ancora a sinistra per entrare nella camera da letto.
Un tempo, l'arredamento di quella stanza era allegro e confortevole, ma a quell'epoca le cose erano molto diverse. Adesso, l'aspetto era funzionale e basta. Poiché il letto e l'armadio occupavano pochissimo spazio, Neville aveva trasformato in laboratorio l'altra estremità della stanza.
La parete era quasi interamente occupata da un bancone con il ripiano di legno grezzo ingombro di una grossa sega a nastro, di un tornio da falegname, di una mola a smeriglio e di una morsa. Al di sopra, sulla parete, c'era una mensola occupata da una distesa disordinata degli attrezzi usati da Robert Neville.
Prese un martello dal bancone e prese alcuni chiodi da uno dei barattoli, tra quella baraonda. Quindi tornò fuori e inchiodò saldamente l'asse all'imposta. I chiodi inutilizzati li gettò tra il pietrisco vicino alla porta.
Per un poco ristette sul prato osservando da un lato all'altro, per tutta la sua lunghezza, la silenziosa Cimarron Street. Era un uomo alto, Neville, sui trentasei anni, di tipo prettamente anglosassone, dai lineamenti comuni, a eccezione della bocca larga dal taglio deciso e dell'azzurro intenso degli occhi che scrutavano ora le rovine carbonizzate delle villette ai due lati della sua. Le aveva bruciate lui, per impedire a loro di saltare sul suo tetto da quelli adiacenti.
Dopo qualche minuto, trasse un lungo e lento respiro e rientrò in casa. Gettò il martello sul divano del soggiorno, poi accese un'altra sigaretta e bevve il primo sorso d'alcool della giornata.
Più tardi si costrinse ad andare in cucina per gettare nel tritarifiuti dell'acquaio gli avanzi di cinque giorni. Sapeva che avrebbe anche dovuto bruciare i piatti di carta e le posate, spolverare i mobili e pulire i lavandini, la vasca da bagno e il gabinetto, cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma non se la sentiva.
Perché era un uomo ed era solo e cose come quelle non avevano importanza per lui.
Era quasi mezzogiorno. Robert Neville si trovava nella serra a raccogliere un cesto di aglio.
All'inizio, l'odore di una tale quantità di aglio gli dava la nausea; il suo stomaco si era trovato in un continuo stato di rivolta. Ora quell'odore permeava la casa e i suoi abiti: a volte pensava di averlo perfino nella carne. Non lo notava quasi più.
Quando ebbe raccolto una quantità sufficiente di teste, rientrò in casa e le ammassò sul ripiano dell'acquaio. Come fece scattare l'interruttore sulla parete, la luce tremolò, poi si accese normalmente. Un sibilo di fastidio gli uscì dai denti. Il generatore faceva di nuovo i capricci. Avrebbe dovuto ancora tirare fuori quel maledetto manuale e verificare i conduttori. E, se fosse stato troppo complicato ripararlo, avrebbe dovuto installare un nuovo generatore.
Furibondo, scaraventò un alto sgabello vicino all'acquaio, prese un coltello e sedette con un brontolìo di stanchezza.
Dapprima divise i bulbi in piccoli spicchi lunati. Quindi tagliò ogni spicchio rosato e membranaceo a metà, scoprendo i bulbi all'interno. L'aria si riempì dell'odore pungente e muschiato. Quando diventò troppo penetrante, accese il ventilatore e l'aspirazione ne diminuì l'intensità.
Allungò una mano verso lo scaffale per prendere un punteruolo. Fece dei fori in ciascuno dei mezzi spicchi, poi li legò tutti insieme con del filo metallico fino a confezionarne venticinque collane.
All'inizio, aveva appeso quelle collane alle finestre. Però, rimanendo a distanza, essi le avevano prese a sassate finché Robert era stato costretto a coprire i vetri rotti con pezzi di compensato. Infine un giorno aveva tolto il compensato, inchiodandovi invece file regolari di assi. In tal modo aveva reso la casa un lugubre sepolcro, ma era meglio che vedersi volare i sassi nelle stanze tra una pioggia di frammenti di vetro. E dopo aver installato i tre ventilatori, non stava poi troppo male. Un uomo poteva abituarsi a tutto, se vi era costretto.
Quando ebbe finito di legare le collane di aglio, uscì e le inchiodò sopra gli stipiti delle finestre, togliendo quelle vecchie, che avevano perduto gran parte del loro potente odore.
Doveva compiere quel lavoro due volte ogni settimana. Fino a che non avesse trovato qualcosa di meglio, quella era la sua prima linea di difesa.
"Difesa?" pensava spesso. "Per che cosa?"
Preparò paletti di legno per tutto il pomeriggio.
Li ricavava al tornio, da grossi picchetti cilindrici, segati in pezzi di una ventina di centimetri. Li lavorava con la mola finché non diventavano aguzzi come pugnali.
Era un lavoro faticoso e monotono: l'aria si saturava di polvere di legno dall'odore di bruciaticcio che gli riempiva i pori della pelle e i polmoni, facendolo tossire.
Eppure non gli sembrava di fare molti progressi. Per quanti paletti facesse, finivano sempre in brevissimo tempo. Le aste cilindriche di legno diventavano via via più difficili da trovare. Alla fine avrebbe dovuto passare al tornio stecche rettangolari. "Buffo, vero?" pensò irritato.
Era tutto molto deprimente e ciò lo convinse che doveva trovare un miglior sistema di procedere. Ma come poteva trovarlo, dal momento che essi non gli davano mai la possibilità di fermarsi e pensare?
Mentre torniva i paletti, ascoltava dei dischi attraverso l'altoparlante che aveva installato nella stanza da letto... la Terza, la Settima e la Nona Sinfonia di Beethoven. Era lieto di avere imparato molto presto, grazie a sua madre, ad apprezzare quel tipo di musica. Lo aiutava a colmare il terribile vuoto delle ore.
Dalle quattro in poi, il suo sguardo corse costantemente all'orologio appeso alla parete. Lavorava in silenzio, le labbra strette in una linea dura, la sigaretta all'angolo della bocca, gli occhi fissi sulla punta tagliente che staccava il truciolo, riempiendo di polvere farinosa il pavimento.
Quattro e un quarto. Quattro e mezzo. Un quarto alle cinque.
Entro un'ora sarebbero stati di nuovo intorno alla casa, quei luridi bastardi. Appena la luce fosse calata.
Ritto dinanzi al gigantesco congelatore, Robert scelse la cena. I suoi occhi affaticati scorrevano dal mucchio delle carni alle verdure surgelate, dal pane alla pasticceria, dalla frutta ai gelati.
Si decise per due cotolette d'agnello, fagiolini e un barattolo di succo d'arancia. Tolse le scatolette dal congelatore e chiuse lo sportello con una spinta del gomito.
Andò poi verso le pile irregolari di barattoli ammucchiati fino al soffitto. Ne prese uno di succo di pomodoro, poi uscì dalla stanza che un tempo era stata di Kathy e che adesso era soltanto del suo stomaco.
Attraversò lentamente il soggiorno, osservando la parete ricoperta per intero da una stampa. Raffigurava l'orlo di una scogliera, puntata verso un oceano verde, le cui onde tumultuavano e si frangevano sopra neri scogli. Lontano, nel cielo limpido, bianchi gabbiani planavano con il vento, mentre sulla destra un albero nodoso si sporgeva sul precipizio, i rami scuri stagliati contro il cielo.
Neville entrò nella cucina e gettò i cibi sopra la tavola: lo sguardo gli corse all'orologio. Venti minuti alle sei. Mancava poco.
Versò un po' d'acqua in un pentolino e lo sbatté sopra il fornello. Quindi scongelò le braciole e le mise sulla graticola. A quel punto l'acqua già bolliva e vi gettò i fagiolini surgelati, poi li coprì pensando che doveva essere il fornello elettrico a sovraccaricare il generatore.
Tornato al tavolo, si tagliò due fette di pane e si versò un bicchiere di succo di pomodoro. Sedette e osservò la lancetta rossa dei secondi che si muoveva lentamente sul quadrante dell'orologio. Quei bastardi sarebbero arrivati presto.
Dopo che ebbe finito il succo di pomodoro, si avviò alla porta d'ingresso e uscì sotto il portico, scese sul prato e lo attraversò fino al marciapiede.
Il cielo si stava oscurando e l'aria si faceva più fresca. Guardò dai due lati di Cimarron Street, mentre la brezza pungente gli scompigliava i capelli biondi. Ecco ciò che non andava in quei giorni di nuvolo: non potevi mai sapere quando sarebbero arrivati.
Oh, be', in fondo erano meglio delle vecchie tempeste di polvere. Con un'alzata di spalle, tornò indietro attraverso il giardino ed entrò in casa, chiudendo la porta a chiave e con il catenaccio e inserendo anche la pesante spranga. Quindi ritornò in cucina, girò le braciole e spense il fuoco sotto i fagiolini.
Stava per mettere il cibo sul piatto quando si fermò; i suoi occhi si volsero velocemente verso l'orologio. Sei e venticinque, oggi. Ben Cortman stava gridando: «Vieni fuori, Neville!»
Robert Neville sedette con un sospiro e cominciò a mangiare.
Si accomodò nel soggiorno, cercando di leggere. Si era preparato un whisky e soda al piccolo bar che aveva in casa e reggeva il bicchiere freddo, leggendo un testo di fisiologia. Dall'altoparlante sopra la porta del corridoio usciva ad alto volume musica di Schönberg.
Non abbastanza alto, però. Li sentiva ancora, là fuori: i loro mormorii, i loro passi e le loro grida, i loro ululati e le loro lotte.
Ogni tanto un sasso o un mattone cadeva con rumore sordo sulla villetta. Ogni tanto un cane abbaiava.
Ed erano tutti là per la stessa cosa.
Robert Neville chiuse gli occhi un attimo e strinse le labbra in una linea sottile. Quindi aprì gli occhi e accese un'altra sigaretta, lasciando che il fumo gli scendesse profondamente nei polmoni.
Rimpianse di non aver avuto il tempo di isolare acusticamente la casa. Non sarebbe stato così terribile, se non avesse dovuto ascoltarli. Perfino dopo cinque mesi, era una cosa che gli faceva saltare i nervi.
Non li guardava più. In principio aveva fatto uno spiraglio nella finestra anteriore e li osservava. Ma poi le donne lo avevano scorto e avevano cominciato ad esibirsi in pose oscene, nell'intento di attirarlo fuori di casa. Non voleva guardare quelle pose.
Abbassò il libro e fissò con sguardo vuoto il tappeto, mentre ascoltava la musica di Verklärte Nacht che usciva dall'altoparlante. Sapeva che avrebbe potuto mettersi la cera nelle orecchie per escludere le loro urla, ma avrebbe escluso anche la musica e non voleva sentirsi obbligato da quegli esseri a rinchiudersi in un bozzolo.
Chiuse di nuovo gli occhi. Erano le donne che rendevano tutto così difficile, pensò, le donne che nella notte prendevano pose da bambole oscene perché lui le vedesse e si decidesse a uscire.
Un brivido lo percorse. Ogni sera era la stessa cosa. Sarebbe rimasto lì a leggere e ad ascoltare la musica. Poi avrebbe cominciato a pensare a come isolare la villetta, poi a pensare alle donne.
Nel profondo del suo corpo tornò di nuovo quel nodo di fuoco; serrò le labbra fino a farle diventare bianche. Conosceva bene quella sensazione: il fatto di non poterla vincere lo esasperava. Gli cresceva dentro finché non resisteva più a star seduto. Allora si alzava e si metteva a passeggiare per la stanza, i pugni lungo i fianchi, stretti fino a diventare esangui. Forse avrebbe preparato il proiettore o avrebbe mangiato qualcosa o avrebbe bevuto troppo o avrebbe alzato ancora di più il volume della musica, fino a farsi dolere i timpani. Quando quel nodo di fuoco gli diveniva intollerabile, doveva fare qualcosa.
Sentì i muscoli dell'addome contrarsi. Rialzò il libro e cercò di leggere, formando ogni parola con le labbra, lentamente e con fatica.
Ma, un momento dopo, l'aveva di nuovo abbassato. Guardò la libreria che gli stava di fronte. Tutta la cultura di quei libri non poteva spegnere il fuoco che aveva dentro; tanti secoli di parole non potevano mettere fine al muto e insensato bisogno della sua carne.
Rendersene conto gli diede fastidio. Era un insulto per un uomo. D'accordo, era un impulso naturale, ma per il quale non era più possibile uno sfogo. Lo avevano costretto al celibato: doveva vivere in quella condizione. Hai un cervello, vero?, si chiese. Bene, allora usalo!
Allungò la mano e alzò maggiormente il volume della musica, quindi si costrinse a leggere un'intera pagina senza fermarsi. Lesse di globuli del sangue spinti attraverso membrane, di pallida linfa che trasportava i rifiuti attraverso canali che terminavano nei nodi linfatici, di linfociti e di fagociti : ...per sfociare, nella regione della spalla sinistra, vicino al torace, in una grossa arteria del sistema circolatorio.
Il libro si chiuse con un colpo secco.
Perché non lo lasciavano in pace? Pensavano forse di potergli mettere tutti le mani addosso? Erano tanto stupidi da pensarlo? Perché continuavano a venire ogni sera? Dopo cinque mesi, avresti pensato che si arrendessero e che provassero altrove.
Si diresse al bar e si preparò un altro bicchiere. Voltandosi per tornare alla poltrona, udì i sassi rotolare sul tetto e cadere a terra con una serie di tonfi, tra gli arbusti di fianco alla casa. Al di sopra del rumore, udì Ben Cortman gridare come faceva sempre:
«Vieni fuori, Neville!»
"Un giorno agguanterò quel bastardo", pensò, mentre ingollava un gran sorso della sua amara bevanda. "Un giorno gli caccerò un paletto in quel maledetto torace. Ne farò uno di trenta centimetri per lui, uno speciale con i nastrini, bastardo".
Domani. Domani avrebbe provveduto all'isolamento della casa. Strinse i pugni fino a che le nocche gli divennero esangui. Non poteva sopportare il pensiero di quelle donne. Se non le avesse udite, forse non vi avrebbe pensato. Domani. Domani.
La musica finì; tolse i dischi dal piatto del giradischi e li ripose nelle custodie di cartone. Adesso poteva sentirli gridare ancora più chiaramente. Prese il primo disco che gli capitò sotto mano, lo pose sul piatto e alzò il volume al massimo.
L'anno della peste, di Roger Leie, lo assordò. I violini grattavano e gemevano, i timpani rimbombavano come i colpi di un cuore in agonia, i flauti eseguivano strane melodie atonali.
Teso dall'ira, strappò il disco dal piatto e lo ruppe sul ginocchio destro. Da tempo desiderava romperlo. Con passo rigido andò in cucina e scaraventò i pezzi nella pattumiera. Poi rimase in piedi nella cucina buia, gli occhi serrati, i denti stretti, le mani premute sulle orecchie. "Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, lasciatemi in pace!"
Inutile, non potevi combatterli di notte. Inutile tentare: era il loro momento. Si comportava in modo molto stupido, cercando di batterli. Doveva guardare un film? No, non se la sentiva di preparare il proiettore. Sarebbe andato a letto mettendosi la cera nelle orecchie. Del resto, era quello che finiva per fare ogni notte.
In fretta, cercando di non pensare affatto, si recò nella camera da letto e si spogliò. Mise i calzoni del pigiama ed entrò nella stanza da bagno. Non metteva mai la giacca del pigiama: era un'abitudine che aveva preso a Panama, durante la guerra.
Mentre si lavava, si osservò nello specchio l'ampio torace, i peli scuri che si arricciavano intorno ai capezzoli e lungo la parte centrale del torace. Osservò l'elaborata croce che si era fatto tatuare sul petto una sera a Panama mentre era ubriaco. "Quant'ero pazzo in quei giorni!", pensò. Be', forse quella croce gli aveva salvato la vita.
Si lavò meticolosamente i denti e usò il filo interdentale. Cercava di avere cura dei propri denti poiché non aveva ormai altro dentista che se stesso. Alcune cose potevano andare a farsi friggere, ma non la salute, pensò. "E allora perché non la smetti di ingozzarti d'alcool?", si chiese. "Perché non te ne vai all'inferno", si rispose.
Attraversò tutta la casa, spegnendo le luci. Per qualche minuto osservò la stampa sul muro e si sforzò di credere che fosse veramente l'oceano. Ma come poteva crederlo, con tutti quei colpi e il chiasso delle zuffe, gli ululati, i ringhi e le grida nella notte?
Spense la lampada del soggiorno e tornò nella camera da letto.
Sbuffò con disgusto quando vide che la segatura ricopriva il letto. La spazzolò via con bruschi colpi della mano, pensando che avrebbe fatto meglio a erigere un divisorio tra il laboratorio e la zona notte della camera. Meglio far questo e meglio far quest'altro, pensò imbronciato. C'erano tante dannate cose da fare, che non avrebbe mai risolto il vero problema.
Si mise la cera nelle orecchie e un gran silenzio lo avvolse. Spense la luce e scivolò tra le lenzuola. Gettò un'occhiata all'orologio fosforescente e vide che le dieci erano passate soltanto da pochi minuti. "Tanto meglio", pensò. "Così mi sveglierò prima."
Rimase disteso sul letto inspirando profondamente, al buio, sperando di addormentarsi. Ma il silenzio non lo aiutava molto. Poteva ancora vederli là fuori: gli uomini dalle facce bianche si aggiravano intorno alla casa, alla ricerca incessante di un modo per arrivare a lui. Alcuni di loro, probabilmente, accasciati come cani, gli occhi lucenti puntati sulla casa, digrignando lentamente i denti: avanti e indietro, avanti e indietro.
E le donne...
Doveva ricominciare a pensare a quelle? Si rivoltò sullo stomaco bestemmiando e premette il viso nel cuscino caldo. Giacque, respirando pesantemente, il corpo scosso da un leggero tremore. Che venga il mattino. La sua mente ripeté le parole di ogni notte. Buon Dio, fa' che venga il mattino.
Sognò di Virginia e gridò nel sonno mentre le dita si aggrappavano follemente alle lenzuola come fossero artigli.
2
La sveglia suonò alle cinque e mezzo e Robert Neville allungò, nell'oscurità mattutina, un braccio intorpidito e la fece tacere.
Cercò le sigarette e se ne accese una, poi si sedette. Dopo pochi istanti si alzò e si diresse verso il buio soggiorno e aprì lo spioncino della porta.
Fuori, sul prato, le scure sagome si stagliavano come silenziose sentinelle. Mentre li guardava, alcuni di loro cominciarono ad allontanarsi e li udì mormorare tra loro insoddisfatti. Un'altra notte era trascorsa.
Tornò nella camera da letto, accese la luce e si vestì. Mentre si infilava la camicia, udì Ben Cortman che gridava: «Vieni fuori, Neville!»
E fu tutto. Dopo di che, si allontanarono; più indeboliti di quando erano arrivati, lo sapeva bene. A meno che non avessero assalito uno di loro. Lo facevano spesso. Non c'era nessun accordo tra loro. Il bisogno era l'unica cosa che li spingeva.
Dopo essersi vestito, Neville si sedette sul letto brontolando e scrisse la lista per quel giorno:
TORNIO DA SEARS
ACQUA
CONTROLLO GENERATORE
PICCHETTI (?)
SOLITO
La colazione fu rapida: un bicchiere di succo d'arancia, una fetta di pane tostato e due tazze di caffè. La finì in fretta, pentendosi di non avere la pazienza di mangiare lentamente.
Finita la colazione gettò nella pattumiera il piatto di carta e la tazza e si lavò i denti. Per lo meno ho una buona abitudine, si consolò.
La prima cosa che fece quando uscì, fu di guardare il cielo. Era limpido, praticamente senza nubi. Oggi poteva uscire. Ottimo.
Mentre attraversava il portico, il piede urtò contro alcuni pezzi dello specchio. "Bene, quell'accidente si è rotto proprio come pensavo", si disse. L'avrebbe raccolto più tardi.
Un corpo era disteso sul marciapiede; un altro era nascosto per metà tra gli arbusti. Erano entrambi di donne. Erano quasi sempre donne.
Aprì la porta della rimessa e fece marcia indietro con la sua Willys familiare, nell'aria pungente del mattino. Poi uscì e aprì il portellone posteriore. Si infilò dei guanti pesanti e si diresse verso la donna sul marciapiede.
Non avevano davvero nulla di attraente alla luce del giorno, pensò, mentre le trascinava attraverso il prato e le gettava sulla tela incerata. Non era rimasta nemmeno una goccia di sangue, in loro; entrambe le donne avevano il colore di un pesce morto. Richiuse il portellone.
Quindi si aggirò sul prato, raccogliendo i sassi e i mattoni e mettendoli dentro un sacco di tela. Poggiò il sacco nella familiare e poi si tolse i guanti. Tornò in casa, si lavò le mani e si preparò uno spuntino: due panini, qualche biscotto e un thermos di caffè bollente.
Quando ebbe finito, andò nella camera da letto e prese la borsa, con dentro i paletti. Se la gettò dietro le spalle e agganciò la fondina con il mazzuolo. Poi lasciò la casa, chiudendo a chiave la porta d'ingresso.
Quel mattino non si sarebbe preoccupato di cercare Ben Cortman; aveva troppe cose da fare. Per un attimo pensò al lavoro di isolamento acustico della villetta che doveva decidersi a compiere. "Be', al diavolo" pensò. "Lo farò domani o in qualche giorno di nuvolo."
Entrò nella familiare e controllò la lista. "Tornio da Sears"; era la prima voce. Dopo aver scaricato i corpi, naturalmente.
Mise in moto la macchina e indietreggiò velocemente nella strada e si diresse verso il Compton Boulevard. Là girò a destra e puntò a est. Le villette ai lati della strada si ergevano silenziose, contro i marciapiedi erano parcheggiate le macchine: vuote e morte.
Gli occhi di Robert Neville scivolarono per un momento sull'indicatore della benzina. C'era ancora metà serbatoio, ma poteva benissimo fermarsi nella Western Avenue e riempirlo. Non c'era alcun senso a usare i bidoni di benzina che aveva accumulato nella rimessa finché non ne avesse avuto bisogno.
Si spinse all'interno della stazione silenziosa e frenò. Prese un fusto di benzina e lo travasò nel suo serbatoio finché il pallido liquido ambrato non cominciò a sgorgare dal serbatoio aperto, cadendo sul cemento.
Controllò l'olio, l'acqua del radiatore, l'acqua distillata della batteria e le gomme. Era tutto in buone condizioni. Di solito era così, perché aveva un'attenzione particolare per la macchina. Se mai si fosse guastata e lui non fosse stato in grado di tornare a casa per il tramonto...
Bene, non era nemmeno il caso di preoccuparsene. Se mai fosse accaduto, sarebbe stata la fine.
Percorse il Compton Boulevard fino a oltrepassare le alte torri petrolifere, al di là del Compton, attraverso tutte le strade silenziose. Non si vedeva alcuno da nessuna parte.
Ma Robert Neville sapeva dove erano.
Il fuoco divampava ancora. Mentre la macchina si avvicinava, si infilò i guanti e la maschera antigas e osservò attraverso gli oculari il fuligginoso velo di fumo sospeso sopra il terreno. L'intero campo era stato trasformato in una fossa gigantesca; era stato nel giugno 1975.
Neville parcheggiò la macchina e ne saltò fuori, ansioso di finire il lavoro al più presto. Dopo aver aperto di scatto il portellone posteriore, ne estrasse uno dei corpi e lo trascinò al limite della fossa. Poi lo sollevò in piedi e lo spinse di sotto.
Il corpo rimbalzò per la china ripida finché non si fermò sul mucchio di ceneri fumanti che giacevano sul fondo.
Robert Neville respirò con fatica, ritornando velocemente alla familiare. Si sentiva sempre soffocare quando era là, sebbene indossasse la maschera antigas.
Quindi trascinò il secondo corpo sull'orlo della fossa e lo spinse. Poi, gettato giù il sacco con le pietre, si precipitò alla macchina e partì.
Dopo aver guidato per circa un chilometro, si tolse la maschera e i guanti e li gettò sul sedile posteriore. Aprì la bocca e inspirò profondamente l'aria fresca. Prese la fiaschetta dallo scomparto e ingollò una lunga sorsata bruciante di whisky. Poi accese una sigaretta e la aspirò profondamente. A volte doveva recarsi alla fossa di cremazione ogni giorno per settimane e settimane e ciò lo nauseava sempre.
In qualche punto laggiù c'era Kathy.
Sulla strada per Inglewood si fermò in un supermercato per prendere alcune bottiglie d'acqua.
Come entrò nel magazzino silenzioso, l'odore di cibo marcio gli riempì le narici. Spinse in gran fretta il carrello metallico su e giù per i corridoi muti e polverosi, con il pesante odore di decomposizione che gli faceva legare i denti e che lo costringeva a respirare attraverso la bocca.
Trovò le bottiglie d'acqua nella parte posteriore e trovò anche una porta che dava su una rampa di scale. Dopo aver sistemato le bottiglie nella familiare, salì le scale. Il proprietario del negozio poteva trovarsi là; poteva quindi cominciare.
Ce n'erano due. Nel soggiorno, distesa sul divano, c'era una donna di circa trent'anni, che indossava una vestaglia rossa. Il petto le si alzava e abbassava lentamente, mentre giaceva immobile, con gli occhi chiusi e le mani unite sullo stomaco.
Le mani di Robert Neville cercarono, a tentoni, il paletto e il mazzuolo. Era sempre difficile per lui, quando erano vivi; specialmente se si trattava di donne. Poteva sentire tornare ancora quell'insensata urgenza che gli tendeva i muscoli. La scacciò. Era folle; non c'era nessuna spiegazione razionale.
La donna non emise alcun suono a eccezione di una improvvisa e rauca espirazione. Mentre entrava nella camera da letto avvertì un rumore come di acqua corrente. "Bene, che altro potrei fare?" si chiese, poiché ancora doveva convincere se stesso che quel che faceva era giusto.
Ristette sotto l'arco della porta, fissando il piccolo letto vicino alla finestra, con un nodo in gola e il respiro che gli scuoteva il petto. Poi, tremante, arrivò fino al fianco del letto e la guardò.
"Perché le bambine assomigliano tutte a Kathy, per me?" pensò, estraendo il secondo paletto con le mani che gli tremavano.
Mentre guidava lentamente verso Sears, cercò di dimenticare, pensando perché andassero bene solamente i paletti di legno.
Si accigliò, mentre percorreva il viale desolato, dove l'unico suono era il sordo brontolio del motore. Gli sembrò straordinario che gli ci fossero voluti cinque mesi per cominciare a riflettervi.
Questo gli fece venire in mente un altro interrogativo. Come mai riusciva sempre a colpire il cuore? Doveva essere il cuore: l'aveva affermato il dottor Busch. Tuttavia lui, Neville, non aveva alcuna conoscenza anatomica.
Aggrottò la fronte. Lo irritava aver dovuto affrontare quell'orrendo procedimento tanto a lungo senza fermarsi mai una volta e chiedersene il perché.
Scosse la testa. "No, dovrei rifletterci attentamente" pensò "dovrei riunire tutte le domande prima di cercarne la risposta. Le cose vanno fatte nel modo giusto, scientificamente."
Già, già, già, si disse, scampoli del vecchio Fritz. Così si chiamava suo padre. Neville lo aveva detestato e si era battuto con ostinazione per non rimanere schiavo della logica e della predisposizione per la meccanica che aveva ereditato da lui. Suo padre era morto negando con forza fino all'ultimo l'esistenza dei vampiri.
Da Sears prese il tornio, lo caricò nella familiare, poi ispezionò il negozio.
Ce n'erano cinque nel seminterrato, nascosti in vari angoli bui. Uno di loro Neville lo scovò dentro una vetrina freezer. Quando vide l'uomo giacere in quella bara di smalto, dovette ridere; sembrava un posto talmente buffo per nascondersi.
Più tardi pensò a quanto quel mondo era privo di umorismo se lui poteva trarre divertimento da una cosa simile.
Verso le due parcheggiò e fece colazione. In ogni cosa sentiva il sapore di aglio.
E ciò lo fece pensare all'effetto che l'aglio aveva su di essi. Doveva essere l'odore che li faceva fuggire, ma perché?
I fatti che li riguardavano erano strani: stare nascosti durante il giorno, evitare l'aglio, morire per un paletto, aver notoriamente paura delle croci, rifuggire con timore dagli specchi.
Quest'ultima cosa, per esempio. Secondo la leggenda, la loro immagine non si rifletteva negli specchi, ma lui sapeva che era falso. Come era falsa la credenza che si trasformassero in pipistrelli. Quella era una superstizione che la logica e l'osservazione avevano facilmente cancellato. Ed era altrettanto stupido credere che potessero trasformarsi in lupi. C'erano senza alcun dubbio dei cani vampiri; li aveva visti e uditi intorno alla sua casa durante la notte. Ma erano solamente cani.
Robert Neville strinse le labbra bruscamente. "Non pensarci" si disse; "non sei ancora pronto." Sarebbe venuto il momento in cui avrebbe trovato la spiegazione di tutto ciò, punto per punto, ma non era ancora venuto. C'erano fin troppe cose di cui preoccuparsi, ora.
Dopo aver mangiato, andò di casa in casa e usò tutti i suoi paletti. Ne aveva portati quarantasette.
3
La forza del vampiro sta nel fatto che nessuno vuole credere alla sua esistenza.
"Grazie, dottor Van Helsing" pensò, posando la copia di Dracula. Sedette fissando di malumore la libreria, mentre ascoltava il secondo concerto per pianoforte di Brahms, un whisky sour nella mano destra, una sigaretta tra le labbra.
Era vero. Il libro era un guazzabuglio di superstizioni e di stereotipato sentimentalismo, ma quell'affermazione era giusta; nessuno aveva creduto in loro; come potevano combattere qualcosa in cui non avevano mai creduto?
Ecco la situazione. Qualcosa di nero e notturno era strisciato fuori dal Medio Evo. Qualcosa privo di struttura o di credibilità, qualcosa che era sempre stato relegato, fatti e personaggi, alle pagine della letteratura fantastica. I vampiri appartenevano al passato: fossero le storie idilliache di Summers o quelle melodrammatiche di Stoker o un breve passaggio nella Encyclopaedia Britannica o uno spunto per i romanzi degli scrittori popolari o materiale grezzo per i produttori di film di serie B. Una tenue leggenda passata di secolo in secolo.
Bene, era vero.
Bevve un sorso dal bicchiere e chiuse gli occhi mentre il liquido freddo gli scorreva lentamente nella gola e gli riscaldava lo stomaco. "Vero" pensò, "però nessuno ha mai avuto l'occasione di rendersene conto." Oh, sapevano che qualcosa c'era, però non poteva essere quella... non quella. Quella era fantasia, quella era superstizione, non esistevano cose come quella.
E, prima che la scienza si fosse messa al passo con la leggenda, la leggenda aveva fatto un boccone della scienza e di tutto il resto.
Quel giorno non aveva trovato nessun palo cilindrico. Non aveva controllato il generatore. Non aveva raccolto i pezzi dello specchio. Non aveva cenato; aveva perso l'appetito. Non era difficile. Lo perdeva spesso. Non poteva fare le cose che aveva fatto per tutto il pomeriggio e poi tornare a casa per un sano pasto. Nemmeno dopo cinque mesi.
Gli tornarono in mente gli undici... no, i dodici bambini di quel pomeriggio e vuotò il bicchiere in due sorsate.
Sbatté le palpebre e la stanza gli ondeggiò davanti. "Sei sbronzo, papà" si disse. "E allora?" replicò. "Non ne ho forse il diritto?"
Scagliò il libro attraverso la stanza. Al diavolo, Van Helsing e Mina e Jonathan e il Conte dagli occhi sanguigni e tutto il resto! Tutte invenzioni, tutte balorde illazioni su un tema macabro.
Una risata soffocata gli salì dalla gola. Dall'esterno, Ben Cortman gli gridava di andar fuori. "Vengo subito, Benny" pensò. "Appena avrò messo lo smoking."
Rabbrividì e digrignò i denti. "Vengo subito." Be', perché no? Perché non uscire? Era un modo sicuro per liberarsi di loro.
Essere uno di loro.
Rise della semplicità di tutto ciò, poi si alzò a fatica e si incamminò con passo incerto verso il bar. "Perché no?" si chiese. Perché affrontare tutte quelle complicazioni, quando una porta spalancata e pochi passi avrebbero posto fine a tutto?
"Accidenti se lo so." C'era, naturalmente, la debole possibilità che da qualche parte esistesse un altro come lui, che cercava di sopravvivere nella speranza che, un giorno, si sarebbe ritrovato di nuovo in mezzo a gente normale. Ma come poteva trovarlo se viveva a più di un giorno di macchina di distanza?
Scrollò le spalle e si versò dell'altro whisky nel bicchiere; aveva abbandonato l'uso dei bicchierini da mesi. L'aglio sulle finestre, e la rete sulla serra, e bruciare i corpi, e togliere le pietre e, briciola a briciola, ridurre il loro spaventoso numero. Perché si prendeva gioco di se stesso? Non aveva mai trovato nessun altro.
Si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona. "Ci risiamo, bambini, seduto bello comodo come un topo nel formaggio, circondato da un esercito di succhiasangue che non desiderano altro se non sorseggiare tranquillamente la mia emoglobina d'annata, ad alta gradazione. Bevete, amici, offro io."
Il suo viso si alterò in un'espressione di crudo e assoluto odio. "Bastardi! Vi ammazzerò fino all'ultimo prima di cedere!" Strinse la mano destra come una morsa e il bicchiere gli si spezzò fra le dita.
Fissò, con lo sguardo senza espressione, i frammenti sul pavimento, le schegge ancora nella sua mano e il sangue misto a whisky che gli gocciolava dal palmo.
"Avrebbero, per caso, gradito un po' di questo?" pensò. Scattò in piedi con un balzo irato e stette quasi per aprire la porta e sventolargli sulla faccia quella mano per sentirli ululare.
Poi chiuse gli occhi mentre veniva percorso da un brivido. "Fatti furbo, amico" pensò. "Vatti a fasciare questa dannata mano."
Avanzò incespicando fino al bagno e si lavò la mano con attenzione, respirando affannosamente mentre versava sulla ferita aperta la tintura di iodio. Quindi la bendò maldestramente, con l'ampio torace che si alzava e si abbassava, sussultante, mentre il sudore gli grondava dalla fronte. "Ho bisogno di una sigaretta" pensò.
Tornato nel soggiorno, cambiò Brahms con Bernstein e si accese una sigaretta. "Che farei se rimanessi senza tabacco?" si chiese, fissando il fumo azzurrino della sigaretta che si innalzava. Be', questo non era molto probabile. Ne aveva qualcosa come un migliaio di pacchetti nell'armadio di Kathy...
Strinse i denti. Nell'armadio della dispensa, della dispensa, della dispensa.
La stanza di Kathy.
Sedette fissando con sguardo spento la stampa sul muro, mentre L'età dell'angoscia gli si ripercuoteva nelle orecchie. Età dell'angoscia, rifletté. "Pensavi di provare angoscia, caro il mio Lenny. Lenny e Benny, ossia Ben Cortman: avreste dovuto incontrarvi, voi due. L'uomo di composizione e quello di decomposizione. Mami, da grande voglio essere un vampiro come papi. Ma, caro il mio amore, certo che puoi."
Dell'altro whisky gorgogliò nel bicchiere. Fece una lieve smorfia per il dolore alla mano e passò la bottiglia nella mano sinistra.
Tornò a sedersi e bevve un sorso. "Fai in modo che le frastagliate cime della sobrietà si smussino", pensò. "Fai in modo che il frantumato equilibrio di una chiara visione sia cancellata, ma fallo in fretta. Li odio."
A poco a poco, la stanza si spostò dal suo baricentro e prese a oscillare e a ondeggiare attorno alla poltrona. Una piacevole bruma, dagli orli confusi, scese davanti ai suoi occhi. Guardò il bicchiere, il giradischi. Lasciò ciondolare la testa da un lato all'altro. Fuori, quelli vagavano, mormoravano e aspettavano.
"Poveri vampiri" pensò "poveri piccoli cari, che zampettate intorno alla mia casa, così assetati, così sperduti."
Un pensiero. Sollevò l'indice, che oscillò davanti al suo sguardo.
"Amici, mi presento a voi su questa pubblica piazza per discutere del vampiro; una minoranza, se mai ve ne è stata una.
"Ma siamo brevi; vi delineerò le basi della mia tesi, che è poi questa: i vampiri sono vittime di un pregiudizio.
"Il punto fondamentale di un pregiudizio su una minoranza è questo: sono odiati perché si ha paura di loro. Quindi..."
Si versò da bere. Molto whisky.
"Un tempo, durante l'oscuro Medio Evo, per essere concisi, il potere del vampiro era grande e la paura nei suoi confronti enorme. Il vampiro era anatema e rimane ancora anatema. La società lo odia senza alcun fondamento logico.
"Ma sono le sue esigenze molto più scandalose di quelle di altri animali e uomini? Sono le sue azioni più riprovevoli di quelle di un genitore che soffoca le capacità di suo figlio? Il vampiro può accelerarti i battiti cardiaci e farti rizzare i capelli. Ma è peggiore del padre che dona alla società un figlio nevrotico, che diventa poi a sua volta un uomo politico? È peggiore dell'industriale che fonda troppo tardive istituzioni con il denaro che ha accumulato distribuendo bombe e cannoni ai nazionalisti assassini? È forse peggiore del mercante di liquori che ha prodotto alcool adulterato per rendere ancora più ottenebrate le menti di quelli che, sobri, erano incapaci di un pensiero razionale? (no, chiedo scusa per questa calunnia; sputo nel piatto in cui ho mangiato!) È forse peggiore dell'editore che riempie gli scaffali di tutte le edicole e le librerie con stimoli di lussuria e di morte? Davvero, guarda in te stesso, mio caro... è proprio così malvagio il vampiro?
"Non fa altro che bere sangue.
"Quindi, perché questo crudele pregiudizio, questo insensato biasimo? Perché il vampiro non può vivere dove vuole? Perché deve scovare nascondigli dove nessuno possa trovarlo? Perché desideri annientarlo? Ah, vedi, hai trasformato il povero e candido innocente in un animale braccato. Il vampiro non ha mezzi di sostegno, nessuna possibilità di ricevere un'istruzione superiore, non ha nemmeno il diritto di voto. Nessuna meraviglia che sia spinto a un'esistenza notturna e predatrice."
Robert Neville borbottò con rabbia: "Certo, certo, ma ti piacerebbe che tua sorella ne sposasse uno?"
Scrollò le spalle. "Mi hai incastrato, amico, mi hai incastrato."
La musica finì. La puntina oscillò, stridendo nei solchi neri. Rimase seduto, avvertendo un brivido arrampicarglisi sulle gambe. Ecco cosa succede a bere troppo. Ti immunizzi dai piaceri delle sbronze.
Non c'è consolazione nell'alcool. Prima di sentirti felice, crolli. La stanza si stava già raddrizzando, i rumori dall'esterno ricominciarono a sollecitargli i timpani.
«Vieni fuori, Neville!»
Deglutì a fatica e un respiro tremante gli passò tra le labbra. "Vieni fuori." Le donne erano là fuori, i vestiti aperti o gettati via, le loro carni in attesa delle sue carezze, le loro labbra in attesa del...
"Mio sangue, mio sangue!"
Come se fosse stata la mano di qualcun altro, guardò il suo pugno sbiancato alzarsi lentamente, tremando, per ricadergli violentemente sulla gamba. Il dolore lo portò a riempirsi i polmoni dell'aria stantìa della casa. Aglio. Odore di aglio, dappertutto. Nei suoi vestiti e nel mobilio e nel cibo e perfino nelle bevande. "Prendi un aglio e soda"; la sua mente si liberò di quell'aborto di battuta.
Si alzò barcollando e cominciò a camminare per la stanza. "Che devo fare, adesso? riprendere la solita routine? Ti risparmio la fatica. Leggere-bere-isolare-la-casa... le... donne? Le donne, lussuriose, assetate di sangue, donne nude che ostentano per lui i loro corpi caldi. No, caldi no."
Un gemito tremebondo sembrò contorcerglisi tra petto e gola. Maledetti loro, che stavano aspettando? Pensavano forse che sarebbe uscito consegnandosi a loro?
Forse sì, forse sì. Si trovò in effetti a togliere la spranga dalla porta. "Arrivo, ragazze, sto arrivando. Leccatevi pure le labbra."
Fuori, sentirono che la spranga veniva sollevata e un ululato ansioso risuonò nella notte.
Rigirandosi, picchiò prima un pugno poi l'altro sul muro fino a far saltare l'intonaco e a lacerarsi la pelle. Poi rimase là a tremare debolmente, battendo i denti.
Dopo un poco gli passò. Rimise la spranga di traverso alla porta e andò nella camera da letto. Si lasciò cadere sul letto e si abbandonò sul cuscino con un gemito. La sua mano sinistra batté una volta, senza forza, sul copriletto.
"Oh, Dio" pensò "per quanto, per quanto ancora?"
4
La sveglia non suonò poiché si era dimenticato di caricarla. Dormì profondamente e senza muoversi, il corpo come pietrificato. Quando finalmente aprì gli occhi, erano le dieci.
Con un borbottìo di disgusto, si alzò a fatica e appoggiò i piedi a terra. La testa cominciò d'un tratto a pulsare come se il cervello stesse cercando di uscirne di forza. "Splendido" pensò, "postumi di sbornia. È proprio quello di cui ho bisogno."
Si spinse in piedi con un gemito e si recò incespicando nel bagno, si gettò dell'acqua sulla faccia e se ne buttò sulla testa. "Male" si lagnò con sé stesso, "male. Mi sento ancora uno schifo." Nello specchio la sua faccia era sparuta, con la barba lunga, molto simile alla faccia di un uomo oltre i quaranta. "Amore, il tuo fascino magico è dappertutto"; le parole sbattevano vanamente nel suo cervello, come lenzuola bagnate agitate dal vento.
Si avviò lentamente verso il soggiorno e aprì la porta d'ingresso. Alla vista della donna rattrappita sul marciapiede, gli uscì una bestemmia dalle labbra. Cominciò a stringere i denti con rabbia, ma ciò gli fece pulsare troppo la testa e dovette lasciar perdere. "Sto male" pensò.
Il cielo era grigio e senza vita. "Favoloso!" pensò. "Un altro giorno tappato in questa topaia fortificata!" Sbatté la porta con ira, poi ebbe un sussulto e gemette per la fitta alla testa provocatagli dal rumore. Al di fuori, udì i rimasugli dello specchio cadere e infrangersi sul cemento del portico. "Oh, bene!" Contrasse le labbra in una pallida curva.
Due tazze di caffè nero bollente lo fecero sentire peggio. Posò la tazza e tornò nel soggiorno. "All'inferno" pensò "mi voglio sbronzare di nuovo."
Ma l'alcool sapeva di trementina e, con una rauca imprecazione, scaraventò il bicchiere contro il muro e rimase a guardare il liquido che gocciolava sul tappeto. "Diavolo, sto finendo tutti i bicchieri." Il pensiero lo irritò mentre il respiro entrava a fatica nelle narici e poi ne usciva con sbuffate ansanti.
Si lasciò cadere sul divano e vi rimase, scuotendo lentamente la testa. Non serviva a niente: lo avevano battuto, quei bastardi lo avevano battuto.
Di nuovo quella sensazione incessante; la sensazione di dilatarsi mentre la casa si restringeva finché lui ne esplodeva in un'eruzione di legno, intonaco e mattoni. Si alzò e si diresse velocemente alla porta, con le mani tremanti.
Ristette sul prato, inspirando a lunghe sorsate l'umida aria mattutina, il viso rivolto dalla parte opposta alla casa che odiava. Ma odiava anche le altre case lì attorno e odiava la strada, i marciapiedi e i prati e ogni altra cosa che si trovasse in Cimarron Street.
Continuò a crescergli dentro, quella sensazione. E di colpo capì che doveva muoversi di là. Tempo nuvoloso o no, doveva muoversi di là. Chiuse a chiave la porta d'ingresso, aprì la rimessa e sospinse in alto nelle sue rotaie la pesante porta metallica. Non si preoccupò nemmeno di riabbassarla. "Tornerò presto" pensò. "Vado via soltanto per poco."
Fece una veloce marcia indietro con la familiare fin sulla strada, voltò di scatto e pigiò con forza sull'acceleratore, diretto verso il Compton Boulevard. Non sapeva dove stesse andando.
Prese una curva a sessantacinque all'ora e arrivò a centocinque prima di aver passato un altro isolato. La macchina si lanciò in avanti, sotto la pressione del piede, e lui mantenne con forza l'acceleratore a tavoletta, con la gamba irrigidita. Le mani strette sul volante erano simili a ghiaccio scolpito e il suo viso era il viso di una statua. Filò lungo l'arteria vuota e morta, a centoquarantacinque all'ora, unico fragore in quell'immobilità.
"Le cose banali e volgari divengono quasi irriconoscibili, perdono la loro natura" pensò mentre attraversava lentamente il prato del cimitero.
L'erba era tanto alta da piegarsi sotto il proprio peso e si spezzava sotto i suoi passi pesanti. Non c'erano altri suoni a eccezione di quelli prodotti dalle sue scarpe e dell'ormai assurdo canto degli uccelli. "Pensavo una volta che cantassero perché tutto nel mondo andava bene" si disse Robert Neville. "So adesso quanto fossi in errore. Cantano perché sono stupidi."
Aveva corso per una decina di chilometri, l'acceleratore a tavoletta, prima di rendersi conto di dove fosse diretto. Era strano il modo in cui la sua mente e il suo corpo l'avevano tenuto nascosto alla sua coscienza. Consapevolmente, si era reso conto soltanto di star male e di sentirsi depresso e che doveva allontanarsi da casa. Non sapeva che sarebbe andato a far visita a Virginia.
Però era proprio là che si era diretto il più velocemente possibile. Aveva parcheggiato sul ciglio della strada e aveva oltrepassato il cancello arrugginito, e adesso i suoi passi schiacciavano e spezzavano l'erba fitta.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che vi era venuto? Doveva essere almeno un mese. Rimpianse di non aver portato dei fiori, ma in fondo non si era reso conto di recarsi là fin quando non era quasi giunto al cancello.
Strinse le labbra mentre un lontano dolore si impadroniva ancora di lui. Perché non poteva essere là anche Kathy? Perché tanto ciecamente aveva dato retta alle stupide disposizioni emanate da quei pazzi durante l'epidemia? Se anche lei avesse potuto essere là, vicino a sua madre...
"Non ricominciare" ordinò a se stesso.
Avvicinandosi alla cripta, si irrigidì notando che la porta di ferro era leggermente, dischiusa. "Oh, no" si disse. Si mise a correre tra l'erba 'bagnata.' "Se sono arrivati a lei, brucio la città" promise. "Giuro a Dio, che la brucio fino alle fondamenta se le hanno messo le mani addosso."
Spalancò la porta che risuonò contro la parete di marmo con un clangore di eco profonda. Lo sguardo corse rapido al basamento di marmo su cui era posata la bara sigillata.
La tensione svanì: Neville riuscì a respirare di nuovo. La bara era ancora là, intatta.
Poi, nell'entrare, scorse l'uomo che giaceva in un angolo della cripta, rattrappito sul pavimento gelido.
Con un grugnito di rabbia, Robert Neville corse verso il corpo e, agguantata la giacca dell'uomo con dita contratte, lo trascinò lungo il pavimento e lo scaraventò con violenza fuori, tra l'erba. Il corpo rotolò su se stesso, e rimase col volto bianco puntato verso il cielo.
Robert Neville rientrò nella cripta, col petto che gli si sollevava a fatica nel respirare. Poi chiuse gli occhi e ristette con le mani appoggiate sul coperchio della bara.
"Sono qui" pensò. "Sono tornato. Ricordati di me."
Gettò via i fiori che aveva portato la volta precedente, e ripulì la cripta delle poche foglie che erano volate dentro a causa della porta aperta.
Poi si sedette a fianco della bara e appoggiò la fronte sul freddo metallo della fiancata.
Il silenzio lo sostenne tra le sue mani fredde e gentili.
"Se potessi morire, adesso" pensò; "serenamente, dolcemente, senza un tremito, senza un grido. Se potessi ritrovarmi con lei. Se riuscissi a credere che potrei ritrovarla."
Le dita gli si irrigidirono lentamente e la testa si piegò sul petto.
"Virginia. Portami dove sei tu."
Una lacrima, cristallina, gli cadde sulla mano immota...
Non aveva idea di quanto a lungo fosse rimasto. Dopo un certo tempo, tuttavia, anche il dolore più profondo si attenua, perfino la disperazione più intensa perde la propria asprezza. "La maledizione dei flagellanti" pensò "è di assuefarsi perfino alla sferza."
Si rialzò senza scostarsi. "Ancora vivo" pensò, un cuore che batté inutilmente, sangue che scorre senza scopo, ossa e muscoli e tessuti ancora vivi e funzionanti senza nessun fine.
Ancora per un momento rimase a fissare la bara, poi se ne distolse con un sospiro e uscì, chiudendosi dolcemente la porta alle spalle, come se non volesse disturbare il sonno di lei.
Si era dimenticato dell'uomo. Quasi vi inciampò, si scostò maledicendolo e fece per proseguire.
Poi, di colpo, tornò a voltarsi.
Cos'era? Osservò incredulo l'uomo. Era morto: morto davvero. Ma come poteva essere? Il mutamento si era verificato in fretta, eppure già quell'uomo aveva l'aspetto e l'odore come se fosse morto da giorni.
La sua mente cominciò a fremere d'improvvisa eccitazione. Qualcosa aveva ucciso il vampiro: qualcosa di un'efficacia brutale. Il cuore non era stato toccato, non c'era presenza di aglio, eppure...
Comprese, senza sforzo apparente. Ma naturale... la luce del giorno!
Un senso di autoaccusa lo colpì. Sapere per cinque mesi che rimanevano al coperto durante il giorno e mai neppure una volta collegare le due cose! Chiuse gli occhi, sopraffatto dalla propria balordaggine.
I raggi del sole: infrarossi e ultravioletti. Ecco che cosa doveva essere. Ma perché? Maledizione, perché non sapeva nulla degli effetti della luce solare sull'organismo umano?
Un altro pensiero: quell'uomo era stato uno dei veri vampiri, un morto vivente. La luce del sole avrebbe avuto lo stesso effetto su coloro che erano ancora vivi?
La prima emozione che avesse provato dopo mesi lo costrinse a correre fino alla macchina.
Mentre richiudeva con forza lo sportello, si chiese se avrebbe fatto meglio a portar via il morto. Il corpo avrebbe potuto attrarre gli altri, avrebbero potuto invadere la cripta. No, non si sarebbero comunque avvicinati alla bara: era sigillata con l'aglio. Per di più, il sangue dell'uomo era ormai guasto, e...
Ancora una volta il filo dei suoi pensieri si interruppe mentre balzava a un'altra conclusione. I raggi del sole dovevano fare qualcosa al loro sangue!
Era quindi possibile che ogni cosa agisse in rapporto al sangue. L'aglio, la croce, lo specchio, il paletto, la luce del giorno, la terra in cui qualcuno di loro dormiva. Non riusciva a capire come, eppure...
Doveva leggere molto, fare molti esperimenti. Forse era proprio di quello che aveva bisogno. Per tanto tempo aveva progettato di farlo, ma ultimamente sembrava essersene dimenticato del tutto. Questa nuova idea aveva risvegliato quel desiderio.
Avviò la macchina e percorse la strada velocemente, svoltando in una zona residenziale e frenando davanti alla prima villa.
Corse lungo il vialetto fino alla porta d'ingresso, ma era chiusa a chiave e non riuscì a forzarla. Con un brontolio d'impazienza, corse alla villa accanto. La porta era aperta e corse fino alle scale attraverso il soggiorno in penombra e fece a due a due i gradini ricoperti dalla passatoia.
Trovò la donna nella stanza da letto. Senza esitare, strappò via le coperte e l'afferrò per i polsi. La donna gemette quando cadde a terra, e Neville l'udì emettere flebili gemiti gutturali mentre la trascinava nel corridoio e discendeva le scale.
Mentre la trascinava attraverso il soggiorno, la donna si mosse.
Le sue mani si chiusero sui polsi di Neville e il corpo cominciò a contorcersi e a ricadere sul tappeto. Gli occhi erano ancora chiusi, però ansimava e mugolava mentre il suo corpo tentava di sfuggire alla stretta dell'uomo. Le sue unghie scure gli ferirono la carne. Con un ringhio si strappò dalla stretta della donna e la trascinò per il resto della strada tirandola per i capelli. Di solito provava uno spasmo quando si rendeva conto che quella gente, a parte un'infermità che lui non comprendeva, era in fondo uguale a lui. Ma adesso era stato preso da un'urgenza di sperimentazione che non lo faceva pensare ad altro.
Nonostante ciò, tremò allo strozzato grido di terrore della donna quando la scaraventò sul marciapiede in pieno sole.
Giacque sull'asfalto contorcendosi disperatamente, annaspando con le mani, le labbra ritratte su gengive maculate di rosso. Robert Neville la osservò teso, deglutendo nervosamente.
Non sarebbe durata, quella sensazione di spietata brutalità. Mentre la osservava si mordeva le labbra. "D'accordo, soffre" cercò di convincersi, "ma è una di loro e mi ucciderebbe con gioia se ne avesse la possibilità. Devi vederla da questo punto di vista, non c'è altro da fare." A denti stretti rimase là a guardarla morire.
Entro pochi minuti la donna smise di muoversi, smise di gemere, le sue dita si dischiusero lentamente sull'asfalto come bianchi germogli. Robert Neville si chinò su di lei per auscultarle il cuore. Nessun battito. Già la sua carne si stava facendo fredda.
Si sollevò con un lieve sorriso. Era vero, allora. Non aveva bisogno dei paletti. Dopo tutto quel tempo aveva finalmente trovato un sistema migliore.
Di colpo gli si mozzò il respiro. Ma come poteva essere sicuro che la donna fosse veramente morta? Come saperlo prima del tramonto?
Quel pensiero lo riempì di una nuova e più irrequieta rabbia. Perché da ogni risposta doveva nascere un nuovo interrogativo?
Vi rifletté, seduto a bere una lattina di succo di pomodoro presa al supermercato dietro cui aveva parcheggiato.
Come accertarlo? Non poteva rimanere tranquillamente vicino alla donna fino al giungere del tramonto.
"Portala a casa con te, allora, scemo."
Chiuse di nuovo gli occhi mentre si sentiva pervadere da un tremito di irritazione. Quel giorno stava sbagliando le risposte più ovvie. Ora avrebbe dovuto rifare tutta la strada per ritrovarla, e non era nemmeno sicuro di dove si trovasse la villa.
Avviò il motore e uscì dal parcheggio, gettando un'occhiata all'orologio. Le tre. Aveva tutto il tempo per tornare prima del loro arrivo. Premette l'acceleratore e la familiare acquistò velocità.
Gli occorse più di mezz'ora per ritrovare la casa. La donna giaceva sul marciapiede ancora nella stessa posizione. Infilati i guanti. Neville aprì il portellone posteriore della familiare e ritornò verso la donna. Mentre camminava ne notò l'aspetto. "No, non ricominciare, per amor di Dio."
Trascinò la donna fino alla macchina e ve la gettò dentro. Poi richiuse il portellone e si tolse i guanti, sollevò il polso e controllò l'orologio. Le tre. Aveva tutto il tempo per...
Si portò bruscamente l'orologio all'orecchio, mentre il cuore gli balzava in gola.
L'orologio si era fermato.
5
Girò la chiave dell'accensione con dita tremanti. Le mani si aggrapparono rigide al volante mentre compiva una stretta conversione a U e ripartiva a tutta velocità verso Gardena.
Che pazzo era stato! Doveva aver impiegato almeno un'ora per raggiungere il cimitero. Doveva esser rimasto nella cripta per ore. Poi andare a scovare quella donna. Andare al supermercato, bere il succo di pomodoro, tornare ancora indietro per ritrovare la donna.
Che ora era?
Pazzo! Una paura fredda gli corse nelle vene al pensiero che loro lo aspettavano a casa. Oddio, e aveva lasciato aperta la porta della rimessa! La benzina, l'attrezzatura... il generatore!
Un grido gli si strozzò in gola mentre premeva l'acceleratore a tavoletta e la piccola familiare si lanciava avanti: l'ago del tachimetro oscillò, poi segnò nettamente cento, centodieci, centoventi. E se fossero già stati là ad attenderlo? Come avrebbe potuto entrare in casa?
Si sforzò di mantenersi calmo. Non doveva crollare proprio adesso; doveva controllarsi. Sarebbe entrato. "Non preoccuparti, entrerai" si disse. Ma non vedeva come.
Si passò nervosamente una mano tra i capelli. "Ma bene, ma bene" commentò mentalmente. "Affronti tutte queste difficoltà per salvarti la vita e poi, un giorno, non ritorni in tempo. Piantala!" ribatté bruscamente a se stesso. Si sarebbe ammazzato per aver dimenticato, la notte precedente, di controllare l'orologio. "Non preoccuparti di ucciderti" rifletté "loro saranno felici di farti questo piacere." All'improvviso si accorse di essere piuttosto debole per la fame. Il poco cibo in scatola che aveva mangiato con il succo di pomodoro non aveva affatto alleviato la sua fame.
Le strade silenziose si perdevano alle sue spalle mentre continuava a volgere la testa da un lato all'altro per vedere se qualcuno di loro apparisse su una soglia. Gli sembrava che facesse già scuro, ma forse era soltanto la sua immaginazione. Non poteva essere così tardi, non poteva essere.
Aveva appena girato in volata all'incrocio tra la Western Avenue e il Compton Boulevard quando vide un uomo uscire correndo da un edificio e gridare verso di lui. Il cuore gli si contrasse in una stretta gelida mentre il grido dell'uomo rimaneva sospeso dietro la macchina.
Non poteva spingere oltre la velocità della macchina. E la mente prese anche a torturarlo con immagini dell'esplosione di una gomma, della familiare che sbandava, che saltava sul marciapiede per andare a schiantarsi contro una delle ville. Le labbra presero a tremargli e le serrò per fermarle. Le mani sul volante gli sembravano intorpidite.
Dovette rallentare all'angolo di Cimarron Street. Con la coda dell'occhio vide un uomo uscire in fretta da una casa e correre dietro la macchina.
Poi, mentre girava l'angolo con uno stridio di pneumatici, non poté trattenere un sussulto.
Erano tutti di fronte alla sua casa, in attesa.
Un terrore disperato gli riempì la gola. Non voleva morire. Poteva averci pensato, averlo persino progettato. Ma non voleva morire. Non in quel modo.
In quel momento vide che tutti, al rumore del motore, voltavano le loro facce bianche. Altri ancora uscirono di corsa dalla rimessa aperta e Neville digrignò i denti con rabbia impotente. Che stupido, insensato modo di morire!
Li vide adesso cominciare a correre proprio incontro alla macchina, una lunga fila che gli tagliava la strada. E, d'improvviso, capì che non poteva fermarsi. Schiacciò l'acceleratore e, in un attimo, la macchina passò in mezzo a loro, gettandone a terra tre come se fossero birilli. Udì la carrozzeria cigolare all'urto dei corpi. Le loro facce bianche e urlanti si stagliarono un attimo contro i vetri, le loro grida gli gelarono il sangue.
Adesso erano dietro di lui: vide nel retrovisore che lo stavano inseguendo tutti. Un piano improvviso s'impadronì della sua mente e, d'impulso, rallentò, frenò perfino, finché la velocità della macchina scese a cinquanta poi a trenta chilometri all'ora.
Si guardò alle spalle e vide che guadagnavano terreno, vide le loro facce grigiastre che si avvicinavano, i loro occhi scuri che fissavano la macchina, lui.
All'improvviso, ebbe un sussulto di spavento allorché un ringhio gli risuonò assai vicino; voltando di scatto la testa, vide la faccia da folle di Ben Cortman a fianco della macchina.
Istintivamente premette l'acceleratore a fondo, ma l'altro piede scivolò dalla frizione e, con un sobbalzo da spezzare il collo, la macchina scattò in avanti e il motore si imballò.
Il sudore gli imperlò la fronte, mentre allungava febbrilmente la mano per rimettere in moto la macchina. Ben Cortman fece per afferrarlo.
«Neville, Neville!»
Con un ringhio, respinse la mano bianca e gelida.
Ben Cortman si protese ancora verso di lui, le mani come artigli di ghiaccio. E ancora Neville ricacciò quella mano e tentò ansiosamente di far funzionare l'accensione, tremando in tutto il corpo. Alle sue spalle poteva udire gli altri gridare di eccitazione mentre si avvicinavano alla macchina.
Il motore riprese vita tossendo, proprio mentre le lunghe unghie di Ben Cortman gli ferivano la guancia.
«Neville!»
A quel dolore, la mano gli si chiuse in un pugno, che andò a colpire il volto di Cortman. Cortman si rovesciò sull'asfalto mentre la marcia si ingranava e la familiare scattava in avanti, prendendo velocità. Uno degli altri riuscì ad aggrapparsi con un balzo al retro della macchina. Per un momento tenne la presa e Robert Neville ne scorse il viso cinereo baluginare come folle, dal vetro posteriore. Poi diresse di scatto la macchina contro il marciapiede, deviò bruscamente e riuscì a far staccare l'uomo. Questi finì a correre attraverso un prato, le mani tese in avanti, e si abbatté con violenza contro la parete di una villetta.
A Robert Neville il cuore batteva ora con tale forza che sembrava volesse schiantargli le costole. Il respiro gli corse come un brivido e sentì la carne farglisi torpida e fredda. Poteva sentire il sangue scorrergli sulla guancia, ma non avvertiva dolore. Se lo deterse in fretta con una mano tremante.
Girò in volata intorno all'angolo, svoltando a destra. Continuò a guardare nello specchietto retrovisore, e la strada davanti a sé. Superò il breve isolato di Haas Street e prese di nuovo a destra. E se loro avessero tagliato attraverso i prati, chiudendogli la strada?
Rallentò un poco, finché li vide spuntare in massa dall'angolo della via come un branco di lupi. Poi premette sull'acceleratore. Doveva correre il rischio di trovarseli tutti alle calcagna. Qualcuno tra loro avrebbe intuito la sua intenzione?
Premette l'acceleratore al massimo e la familiare scattò in avanti, superando l'isolato. Girò attorno all'angolo a ottanta all'ora, dette tutto gas fino a Cimarron Street e svoltò di nuovo a destra.
Trattenne il respiro. Non c'era nessuno in vista sul suo prato. C'era ancora una possibilità, allora. Tuttavia avrebbe dovuto abbandonare la familiare; non c'era tempo di portarla nella rimessa.
Portò di scatto la macchina a fianco del marciapiede e aprì con una spinta lo sportello. Mentre aggirava correndo la macchina, udì avvicinarsi oltre l'angolo della via l'urlo ondeggiante della canea.
Doveva correre il rischio di chiudere a chiave la rimessa. Se non l'avesse fatto, avrebbero potuto distruggere il generatore; non potevano aver già avuto il tempo di farlo. I suoi passi risuonarono pesanti sul vialetto che portava alla rimessa.
«Neville!»
Indietreggiò di colpo, mentre Cortman usciva correndo dal buio della rimessa.
Cortman si scontrò con lui e quasi lo gettò a terra. Sentì le mani fredde e possenti chiuderglisi attorno alla gola mentre il fetido respiro di Cortman gli toglieva l'aria. Si spinsero lottando verso il marciapiede e la bocca dai bianchi canini si avvicinò alla gola di Neville.
Bruscamente Neville sollevò il pugno destro e colpì Cortman alla gola. L'altro emise un suono strozzato. Al fondo dell'isolato i primi di loro spuntarono correndo e urlando da dietro l'angolo.
Con una mossa violenta, Robert Neville afferrò Cortman per i capelli lunghi e grassi e lo scaraventò lungo il vialetto, mandandolo a sbattere con la testa contro la fiancata della familiare.
Lo sguardo di Robert Neville corse alla strada. Non c'era più tempo per la rimessa! Svoltò rapidamente l'angolo della casa e raggiunse il portico.
Di colpo si fermò. Oh, Dio, le chiavi!
Con un singulto di orrore si voltò di scatto e corse verso la macchina. Cortman si rialzò con un ringhio gutturale e Neville lo colpì al volto con una ginocchiata, facendolo cadere di nuovo sul marciapiede. Poi si protese nella macchina e tolse il portachiavi dall'accensione.
Mentre stava per uscire dalla macchina, il primo della turba gli balzò addosso.
Neville si lasciò cadere sul sedile della macchina e l'uomo inciampò nelle sue gambe e crollò pesantemente sul marciapiede. Robert Neville balzò dalla macchina e, correndo attraverso il prato, arrivò sotto il portico.
Dovette fermarsi a cercare la chiave giusta e un altro uomo superò con un salto i gradini del portico. Neville fu sbattuto contro la casa dall'urto con quel corpo. L'alito caldo e sanguineo gli fu di nuovo addosso, i denti scoperti alla ricerca avida della sua gola. Colpì l'uomo all'inguine con il ginocchio e poi, appoggiandosi al muro, alzò il piede e gettò l'uomo piegato in due addosso a un altro che stava correndo verso di loro attraverso il prato.
Neville si tuffò verso la porta e ne aprì la serratura, la spalancò, entrò in casa e si volse. Mentre stava richiudendo con forza la porta, un braccio si intromise nell'apertura. Vi schiacciò la porta contro con tutta la forza finché udì il braccio spezzarsi poi scostò un poco la porta, spinse fuori il braccio rotto e la richiuse. Con mani tremanti inserì al suo posto la spranga.
Scivolò lentamente sul pavimento e cadde supino. Rimase là disteso, nell'oscurità, ansante, le gambe e le braccia come morte sul pavimento. Fuori ululavano, prendendo a pugni la porta, gridando il suo nome in un parossismo di furibonda demenza. Raccolsero mattoni e sassi e li gettarono contro la casa, urlando e maledicendolo.
Rimase disteso ad ascoltare il tonfo dei sassi e dei mattoni contro la casa, ad ascoltarli urlare.
Dopo un poco si trascinò fino al bar. Metà del whisky che si versò finì sul tappeto. Vuotò il bicchiere e rimase là, rabbrividendo, aggrappandosi al mobile del bar per sostenere le gambe tremolanti, con la gola tesa e palpitante, con le labbra tremanti senza controllo.
A poco a poco il calore dell'alcol gli si diffuse nello stomaco e si estese per tutto il corpo. Il respiro si calmò, il petto smise di tremare.
Sussultò nell'udire un gran fragore al di fuori.
Corse allo spioncino e guardò fuori. Digrignò i denti, colto da un accesso di rabbia nel vedere che la familiare era stata rovesciata sul fianco: stavano infrangendo il parabrezza con sassi e mattoni, strappavano la capotta e fracassavano il motore con furibondi colpi di mazza, ammaccando la carrozzeria con bastonate accanite. Mentre guardava, l'ira lo pervase come una marea corrosiva e bestemmie smozzicate gli riempirono la gola mentre stringeva i pugni fino a farli diventare bianchi.
Voltandosi di scatto andò alla lampada e cercò di accenderla: non funzionava. Con un ringhio si precipitò in cucina. Il frigorifero era spento. Corse da una buia stanza all'altra. Il congelatore era fuori uso; sarebbe andato a male tutto il cibo. La sua era una casa morta.
La rabbia gli esplose dentro. Basta!
Le mani, tremanti dall'ira, tolsero gli indumenti dal cassetto del comò finché si chiusero su delle pistole cariche.
Corse attraverso il buio soggiorno e tolse la spranga dalla porta, mandandola a sbattere con gran rumore sul pavimento. Fuori, urlarono, quando lo sentirono aprire la porta. "Sto uscendo, bastardi!" gridò nella sua mente.
Spalancò bruscamente la porta e sparò al primo in piena faccia. L'uomo fu scagliato fuori dal portico e due donne dagli abiti infangati e laceri si fecero incontro a Neville, le bianche braccia protese per abbracciarlo.
Osservò i loro corpi sussultare mentre venivano raggiunte dalle pallottole, poi le spinse entrambe da parte e cominciò a sparare in mezzo al gruppo, mentre un urlo selvaggio gli contraeva le labbra esangui.
Continuò a sparare fin quando ebbe scaricato entrambe le pistole. Poi rimase sotto il portico, vibrando colpi alla cieca con il calcio delle pistole, e gli parve quasi di impazzire quando lo stesso a cui aveva sparato in faccia gli corse addosso di nuovo. E quando gli strapparono le pistole delle mani usò i pugni e i gomiti, la testa e i piedi.
Non si rese conto di quel che stava facendo e di quanto fosse disperato il suo tentativo fino a quando un dolore lancinante per una profonda lacerazione alla spalla lo fece tornare alla realtà. Liberandosi con violenza di due donne, indietreggiò fino alla porta. Il braccio di un uomo gli strinse il collo. Barcollò in avanti, si piegò in due e fece volare l'uomo sopra la sua testa in mezzo agli altri. Con un salto tornò sulla soglia, si aggrappò ai due lati dello stipite, e scalciò a piedi uniti in mezzo al gruppo, mandando gli uomini a rotolare tra gli arbusti.
Poi, prima che potessero raggiungerlo di nuovo, gli sbatté la porta in faccia, chiuse a chiave, mise il catenaccio e inserì la pesante spranga al suo posto.
Robert Neville rimase immobile nella fredda oscurità della sua casa, ad ascoltare le urla dei vampiri.
Si appoggiò alla parete e vi picchiò con i pugni, colpi lenti e deboli; le lacrime gli scorrevano lungo le guance non rasate, la mano insanguinata pulsava dolorosamente. Era tutto finito, tutto.
«Virginia» singhiozzò, come un bambino sperduto e terrorizzato. «Virginia. Virginia.»
PARTE SECONDA
Marzo 1976
6
La villetta, finalmente, era di nuovo abitabile.
Adesso anche più di prima, in pratica, perché alla fine si era concesso tre giorni per isolarne le pareti. Adesso potevano gridare e ululare quanto volevano, non avrebbe più dovuto sentirli. Era soprattutto contento di non dover più ascoltare Ben Cortman.
Per fare tutto, gli ci era voluto tempo e fatica. Per prima cosa aveva dovuto pensare a sostituire con una nuova la macchina che gli avevano distrutto. Era stato più difficile di quanto immaginasse.
Era dovuto andare fino a Santa Monica, all'unica concessionaria della Willys di cui fosse a conoscenza. Le familiari della Willys erano le sole macchine di cui avesse esperienza, e non gli sembrava il momento più adatto per mettersi a fare esperimenti. Non poteva andare a piedi fino a Santa Monica, così aveva dovuto cercare di arrangiarsi con una delle molte macchine parcheggiate nei dintorni. Ma per la maggior parte queste erano fuori uso, per un motivo o per l'altro: batteria scarica, pompa della benzina ostruita, mancanza di benzina, gomme a terra.
Finalmente, in una rimessa a circa un chilometro e mezzo dalla villetta, aveva trovato una macchina che poteva far funzionare e si era recato in fretta a Santa Monica per prendere un'altra familiare. Ne sostituì la batteria, riempì il serbatoio di benzina, prendendo inoltre alcuni fusti di carburante di scorta, e tornò a casa. Arrivò alla villetta circa un'ora prima del tramonto.
Fece bene attenzione a questo.
Per fortuna il generatore non era stato danneggiato. A quanto sembrava, i vampiri non avevano idea di quale importanza aveva per lui, perché, fatta eccezione per un cavo strappato e per qualche randellata, l'avevano lasciato stare. Aveva fatto in modo di rimetterlo in sesto velocemente, il mattino dopo l'attacco, per evitare che i cibi congelati si guastassero. Ne fu felice, perché era sicuro che non fosse rimasto alcun posto dove trovare dell'altro cibo congelato, ora che l'elettricità non c'era più.
Per il resto, aveva dovuto rimettere in ordine la rimessa e raccogliere i resti delle lampadine rotte, dei fusibili, dei conduttori, delle prese di corrente, delle asticciole di metallo per saldature, dei pezzi di ricambio del motore e una scatola di semi che una volta aveva messo là, senza ricordarsi quando.
Avevano danneggiato irrimediabilmente la lavatrice, costringendolo a cambiarla. Ma non era stato difficile. La cosa peggiore era stata asciugare tutta la benzina che avevano rovesciato dai bidoni. "Avevano fatto davvero del loro meglio nello sprecare la benzina", pensò irritato mentre l'asciugava con uno straccio.
Nell'interno della villetta, aveva riparato l'intonaco scrostato e, per buona misura, aveva cambiato la stampa per dare alla stanza un aspetto diverso.
Si era quasi divertito a fare tutto il lavoro, una volta iniziato. Aveva trovato qualcosa in cui perdersi, qualcosa su cui riversare tutta l'energia della furia che ancora lo pervadeva. Questo rompeva la monotonia dei suoi lavori quotidiani: trasportare i corpi, riparare l'esterno della casa, appendere l'aglio.
In quei giorni bevve poco, cercando di far passare quasi tutto il giorno senza bere, e facendo persino assumere alle sue bevute serali la funzione di tonico distensivo invece che di fuga assurda. Gli era tornato l'appetito, era aumentato quasi due chili e aveva perso un po' di pancia. Dormiva persino di un sonno stanco, senza sogni, per l'intera notte.
Per un paio di giorni aveva accarezzato l'idea di andare in un appartamento di qualche lussuoso albergo. Ma il pensiero di tutto il lavoro che avrebbe dovuto fare per renderlo abitabile, gli fece cambiare idea. No, in quella casa si trovava bene.
Stava seduto nel soggiorno, ora, ad ascoltare la sinfonia Jupiter di Mozart e a chiedersi come poteva cominciare, e da dove cominciare la sua indagine.
Conosceva pochi particolari, ma erano solamente dei riferimenti sparsi nella sostanza di un problema troppo ampio. La risposta era da trovare altrove. Probabilmente in qualche fatto che doveva conoscere, ma che non aveva considerato nella luce giusta, in qualche superficiale cognizione che non aveva ancora collegato al quadro globale.
Ma quale?
Rimase seduto immoto nella poltrona, un bicchiere imperlato di umidità nella mano destra, gli occhi fissi sulla stampa.
Era un'immagine del Canada: profondi boschi nordici, misteriosi nelle loro ombre verdi, che si erigevano immobili e statuari, tristi nel silenzio di una natura priva dell'uomo. Fissò la sua profondità, muta e verde, e pensò.
Magari se fosse tornato indietro. Forse la risposta era nel passato, in qualche oscuro solco della memoria. "Indietro" allora, incitò la sua mente "indietro."
Tornare indietro lo fece soffrire.
C'era stata un'altra tempesta di polvere durante la notte. Alti mulinelli di vento avevano tempestato la casa, trasportando la polvere attraverso le fessure, facendola filtrare dalle screpolature dell'intonaco, e lasciandone un sottile strato su tutti i mobili. Sopra il loro letto, la polvere filtrava come cipria, posandosi tra i capelli, sulle palpebre e sotto le unghie, ostruendo i pori.
Per metà della notte era rimasto sveglio cercando di distinguere l'affaticato respiro di Virginia. Ma non poteva udire nulla sopra lo stridore sgradevole della bufera. Per un momento, durante il dormiveglia, aveva avuto l'impressione che la casa fosse passata allo smeriglio da ruote immani che ne stringevano la struttura tra mostruose superfici abrasive facendola vibrare.
Non si era mai abituato alle bufere di polvere. Il suono sibilante del turbine granuloso gli aveva sempre fatto allegare i denti. Le tempeste non erano mai arrivate con sufficiente regolarità perché potesse adattarvisi. Ogni volta, passava una notte agitata e insonne, così che il giorno dopo si recava in fabbrica esausto di mente e di corpo.
Ora c'era anche Virginia di cui preoccuparsi.
Circa verso le quattro si risvegliò da un breve assopimento e si rese conto che la tempesta era cessata. Per contrasto, il silenzio gli sembrava un rumore.
Mentre si inarcava irritato per aggiustarsi il pigiama gualcito, si accorse che Virginia era sveglia. Stava sdraiata sulla schiena, lo sguardo verso il soffitto.
«Che c'è?» mugugnò assonnato.
Non gli rispose.
«Tesoro?»
Lo sguardo si spostò lentamente verso di lui.
«Niente» disse. «Dormi.»
«Come ti senti?»
«Solito.»
«Ah.»
Rimase disteso per un momento a guardarla.
«Bene» disse poi e, rigirandosi sul fianco, chiuse gli occhi.
La sveglia suonò alle sei e mezzo. Di solito Virginia la fermava, ma quando non lo faceva lei, Robert si protendeva sopra il suo corpo inerte e lo faceva lui stesso. Stava ancora distesa sulla schiena, ancora con lo sguardo fisso.
«Che c'è?» le chiese preoccupato.
Lo guardò e scosse la testa senza sollevarla dal cuscino.
«Non lo so» gli rispose. «Soltanto non riesco a dormire.»
«Perché?»
Emise un suono indeciso.
«Ti senti sempre debole?» le chiese.
Si provò a sollevarsi, ma non le riuscì.
«Stai giù, tesoro» le disse. «Non ti muovere.» Le appoggiò una mano sulla fronte. «Febbre non ne hai.»
«Non mi sento male» rispose lei. «Solamente... stanca.»
«Sei pallida.»
«Lo so. Sembro un fantasma.»
«Non alzarti» le disse.
Era già in piedi.
«Non voglio viziarmi» disse. «Alzati, preparati. Starò bene.»
«Non alzarti, se non ti senti bene, tesoro.»
Gli batté una mano sul braccio e sorrise.
«Starò bene» ripeté. «Tu preparati.»
Mentre si radeva, udì lo strascicare delle sue pantofole al di là della porta del bagno. Aprì la porta e la osservò mentre attraversava il soggiorno con molta lentezza, con lievi movimenti ondeggianti del corpo avvolto nella vestaglia. Rientrò nel bagno, scuotendo la testa. Avrebbe dovuto rimanersene a letto.
Il lavandino era ricoperto di polvere: quell'accidente era dappertutto. Era stato costretto infine ad approntare una tenda sopra il letto di Kathy, per evitare che la polvere le andasse sul viso. Aveva inchiodato a metà della parete sopra il suo letto un mezzo telo che discendeva fino all'altro lato, dov'era sorretto da due paletti legati al fianco del letto.
Non riuscì a radersi bene perché il sapone da barba era pieno di sabbia e non aveva tempo per insaponarsi una seconda volta. Si risciacquò il viso, prese un asciugamano pulito dall'armadio dell'anticamera e si asciugò.
Prima di tornare in camera da letto per vestirsi, dette un'occhiata alla camera di Kathy.
Era ancora addormentata, la piccola testa bionda era immobile sul cuscino, le guance rosate per il sonno pesante. Passò un dito sul telo e lo ritrasse tutto grigio di polvere. Scuotendo disgustato la testa, uscì dalla stanza.
«Vorrei tanto che finissero queste maledette tempeste» disse entrando in cucina dieci minuti più tardi. «Sono sicuro...»
Tacque di colpo. Di solito, Virginia era di fronte al fornello, a preparare le uova, fette di pane tostato o frittelle, a fare il caffè. Era seduta, invece, alla tavola. Sul fornello il caffè stava filtrando, ma non c'era altro che cuocesse.
«Amore, se non ti senti bene, tornatene a letto» le disse. «Posso prepararmi la colazione da solo.»
«Va tutto bene» gli rispose. «Mi stavo soltanto riposando. Scusa. Mi alzo e ti preparo qualche uovo.»
«Stai seduta» le disse. «Non sono monco.»
Andò al frigorifero e ne aprì lo sportello.
«Vorrei sapere come andrà a finire» disse lei. «Metà degli abitanti dell'isolato l'ha presa, e tu dici che in fabbrica gli assenti sono più di metà.»
«Forse è qualche virus» le rispose.
Lei scosse la testa. «Non lo so.»
«Tra le bufere, le zanzare e la malattia, la vita sta diventando proprio un inferno» disse lui, versandosi da una bottiglia del succo d'arancia. «Lupus in fabula...»
Estrasse dal bicchiere di succo d'arancia un bruscolo nero.
«Come diavolo faranno a entrare nel frigorifero, non lo so davvero» brontolò.
«Per me niente, Bob» disse lei.
«Niente succo d'arancia?»
«No.»
«Ti fa bene.»
«No, grazie, amore» rispose lei, tentando di sorridere.
Lui ripose la bottiglia e sedette di fronte a lei, con il suo bicchiere di succo d'arancia.
«Non senti alcun dolore?» le chiese. «Nessun mal di testa, niente?»
Lei scosse lentamente la testa.
«Vorrei capire cos'è che non va» disse.
«Chiama il dottor Busch, più tardi.»
«Lo farò» gli rispose, facendo la mossa di alzarsi. Le pose una mano sulle sue.
«No, no, amore, stai lì» le disse.
«Ma non c'è alcun motivo perché debba sentirmi così.»
La sua voce era irritata. Era sempre stata la stessa, da quando la conosceva. Essere ammalata, la irritava. La malattia le era odiosa. Sembrava considerarla come un affronto personale.
«Andiamo» le disse, alzandosi. «Ti aiuto a tornare a letto.»
«No, lasciami seduta qui con te» disse lei. «Tornerò a letto quando Kathy sarà andata a scuola.»
«D'accordo. Ma davvero non vuoi nulla?»
«No.»
«Un po' di caffè?»
Lei scosse la testa.
«Ti ammalerai davvero, se non mangi» le disse.
«Non ho fame.»
Robert finì il succo d'arancia e si alzò per prepararsi un paio d'uova fritte. Ne ruppe il guscio sull'orlo del tegamino e ne lasciò cadere il contenuto sulla pancetta già calda. Poi prese il pane dal cassetto e tornò alla tavola.
«Dai qui, lo metto io nel tostapane» disse Virginia. «Tu bada a... Oddio.»
«Che c'è?»
Lei agitò debolmente una mano davanti al viso.
«Una zanzara» disse, con una smorfia.
Robert si mosse e, un momento dopo, schiacciò l'insetto tra le palme.
«Zanzare» mormorò lei. «Mosche e acari.»
«Stiamo entrando nell'era degli insetti» commentò lui.
«Non è certo bene» disse Virginia. «Sono portatori di malattie. Dovremmo mettere anche una rete intorno al letto di Kathy.»
«Lo so, lo so» disse lui, tornando al fornello e muovendo il tegame in modo che il grasso caldo coprisse la superficie bianca delle uova. «Voglio davvero farlo.»
«Non credo nemmeno che l'insetticida funzioni» osservò Virginia.
«Davvero?»
«No.»
«Dio, e dicono che sia uno dei migliori in commercio.»
Fece scivolare le uova su un piatto.
«Davvero non vuoi un po' di caffè?» le chiese ancora.
«No, grazie.»
Sedette, e lei gli porse il pane imburrato.
«Mi auguro proprio che noi non si stia allevando una razza di superinsetti» riprese lui. «Ricordi quella razza di cavallette giganti che scoprirono nel Colorado?»
«Sì.»
«Magari gli insetti sono... Com'è la parola? Mutanti.»
«Che vuol dire?»
«Oh, significa che stanno... cambiando. All'improvviso. Saltando decine di piccoli gradini nella scala dell'evoluzione, magari sviluppandosi lungo linee che non avrebbero seguito affatto se non fosse stato per...»
Silenzio.
«Le bombe?» domandò lei.
«Forse» le rispose.
«Be', sono loro a provocare le tempeste di polvere. Probabilmente sono la causa di molte altre cose.»
Virginia sospirò leggermente e scosse la testa.
«E dicono che abbiamo vinto la guerra» commentò.
«Nessuno l'ha vinta.»
«L'hanno vinta le zanzare.»
Robert fece un lieve sorriso.
«Penso proprio di sì» disse.
Rimasero seduti ancora un poco senza parlare e l'unico suono nella cucina fu quello prodotto dal battito della forchetta sul piatto e della tazza sul piattino.
«Hai dato un'occhiata a Kathy stanotte?» gli domandò Virginia.
«L'ho guardata proprio adesso. Mi sembra che stia bene.»
«Ottimo.»
Lo osservò con attenzione.
«Stavo pensando, Bob» riprese. «Forse dovremmo mandarla all'Est da tua madre finché io non stia meglio. Potrebbe essere contagioso.»
«Potremmo» le rispose dubbioso «se però si tratta di un contagio, da mia madre non sarà più sicura che qui.»
«Non lo credi?» domandò lei. Sembrava preoccupata.
Alzò le spalle. «Non lo so, tesoro. Penso che qui sia probabilmente altrettanto sicura. Se nell'isolato le cose andranno peggio, non la manderemo più a scuola.»
Lei fece per obiettare, ma poi rinunciò.
«D'accordo» disse.
Robert guardò l'orologio.
«Sarà meglio che mi affretti» disse.
Lei assentì e lui riprese a mangiare in fretta quel che rimaneva della colazione. Mentre stava finendo il caffè, lei gli chiese se la sera prima avesse comprato un giornale.
«È nel soggiorno» le rispose.
«Dice niente di nuovo?»
«No. Le solite cose. È diffusa in tutto il paese, un po' qui, un po' là. Non sono ancora riusciti a trovare il virus.»
Lei si morse il labbro inferiore.
«Non sanno che cosa sia?»
«Ne dubito. Se qualcuno lo sapesse, certamente l'avrebbe già detto.»
«Ma devono avere un'idea.»
«Tutti hanno un'idea. Ma sono idee che non valgono niente.»
«Che dicono?»
Scrollò le spalle. «Tutto, dalla guerra batteriologica in giù.»
«Pensi che c'entri?»
«La guerra batteriologica?»
«Sì» rispose lei.
«La guerra è finita» commentò Robert.
«Bob» riprese lei d'un tratto «pensi di dover andare al lavoro?»
Le sorrise come per scusarsi.
«Che altro potrei fare?... Dobbiamo mangiare.»
«Lo so, però...»
Si sporse sulla tavola e sentì com'era fredda la sua mano.
«Tesoro, andrà tutto bene» la rassicurò.
«E pensi che dovrei mandare Kathy a scuola?»
«Penso di sì» le rispose. «A meno che le autorità sanitarie dicano che bisogna chiudere le scuole, non vedo perché dovremmo tenerla a casa. Non è malata.»
«Ma con tutti quei bambini a scuola...»
«Penso che sia meglio mandarcela» rispose.
Virginia emise un sospiro soffocato; poi disse: «D'accordo, se lo pensi».
«Hai bisogno di qualcosa prima che vada?» le chiese.
Lei scosse la testa.
«Oggi tu rimani a casa» le disse «e a letto.»
«Va bene» gli rispose. «Appena avrò mandato via Kathy.»
Le accarezzò la mano. Da fuori, risuonò il clacson di una macchina. Finì il caffè e si recò nel bagno per risciacquarsi la bocca. Poi prese la giacca dall'armadio dell'anticamera e l'indossò.
«Ciao, tesoro» disse, dandole un bacio sulla guancia. «Non stancarti.»
«Ciao» rispose lei. «Stai attento.»
Attraversò il prato, stringendo i denti nell'avvertire il residuo di polvere nell'aria. Poteva sentirne l'odore, camminando; una sensazione di prurito e di secchezza nel naso.
«'giorno» disse, entrando in macchina e chiudendo lo sportello.
«Buongiorno» gli rispose Ben Cortman.
7
Appartenente alla specie Allium sativum, del genere delle Liliacee, che comprende l'aglio, il porro, la cipolla, lo scalogno e l'aglio di serpe. È di colore pallido e odore penetrante, contiene diversi solfuri di allile. Composizione: acqua, 64,6%; proteine 6,8%; grassi 0,1%; carboidrati, 26,3%; fibre, 0,8%; ceneri, 1,4%.
Ecco. Rigirò sul palmo della mano destra uno dei bulbi rosati e membranacei. Per sette mesi ormai aveva continuato a legarli in collane aromatiche e ad appenderli fuori della casa senza la più pallida idea del perché facessero fuggire i vampiri. Era tempo di imparare questo perché.
Posò il bulbo sul ripiano dell'acquaio. Porro, cipolla, scalogno e aglio di serpe. Avrebbero funzionato bene come l'aglio? Si sarebbe sentito proprio un imbecille se avessero funzionato, dopo aver percorso chilometri in cerca dell'aglio, quando le cipolle erano dappertutto.
Ridusse un bulbo in poltiglia e aspirò l'acre odore proveniente dal coltello.
Bene, e adesso? Il passato non gli diceva nulla che potesse aiutarlo: gli parlava soltanto di insetti portatori di virus, ma non erano essi la causa. Ne era sicuro.
Il passato aveva portato anche qualche altra cosa; il cui ricordo significava dolore. Ogni parola riportata alla coscienza era stata come la lama di un coltello rigirata in lui. Vecchie ferite si erano riaperte nel ricordo di lei. Aveva dovuto finalmente fermarsi, gli occhi chiusi, i pugni stretti nel disperato tentativo di accettare il presente nei suoi giusti termini e di non tormentarsi per quel che era stato. Ma soltanto bere fino a rendere impossibile qualunque riesame era finora servito a soffocare lo snervante dolore portato dal ricordo.
Rimise a fuoco lo sguardo. "Va bene, diavolo", si disse, "fai qualcosa!"
Riprese a leggere il testo, acqua... era questa forse? si chiese. No, era ridicolo; ogni cosa ha dentro dell'acqua. Proteine? No. Grassi? No. Carboidrati? No. Fibre? No. Ceneri? No. Che cosa allora?
Il caratteristico odore e sapore dell'aglio sono dovuti a un olio essenziale che corrisponde allo 0,2% del peso, e che si compone principalmente di solfuro di allile e di isotiocianato di allile.
Forse stava lì la risposta.
Ancora il libro: Il solfuro di allile può essere preparato riscaldando olio di senape e solfuro di potassio alla temperatura di 100 gradi.
Si lasciò cadere pesantemente nella poltrona del soggiorno e un ansito di disgusto gli portò un tremito per tutto il corpo. "E dove diavolo lo trovo l'olio di senape e il solfuro di potassio? E l'attrezzatura per prepararli?"
"Splendido" si schernì. "Il primo passo e già sei finito con la faccia per terra."
Si sollevò disgustato di se stesso e si diresse al bar. Ma mentre stava versandosi da bere rimise con forza la bottiglia sul banco. No, perdio, non aveva intenzione di continuare alla cieca, proseguendo a tentoni il sentiero di un'esistenza idiota e sterile fino a cadere per l'età o per qualche altro accidente. Doveva trovare la risposta, oppure dare un taglio a tutta quella maledizione, vita compresa.
Controllò l'orologio. Dieci e venti; aveva tempo. Si avviò deciso nel corridoio e sfogliò l'elenco del telefono. C'era un posto a Inglewood.
Quattro ore dopo si rialzò dal banco del laboratorio con un torcicollo e il solfuro di allile dentro una siringa ipodermica: provava la prima vera sensazione di aver concluso qualcosa dall'inizio del suo forzato isolamento.
Con un poco di eccitazione, corse alla macchina e la guidò fuori dalla zona che aveva ripulito e segnato con righe di gesso. Sapeva che era più che possibile che alcuni vampiri avessero sconfinato in quella zona e vi si nascondessero di nuovo. Ma non aveva tempo di far ricerche.
Parcheggiata la macchina, entrò in una villetta e si diresse nella camera da letto. Là dentro c'era una giovane donna, dalla bocca imbrattata di sangue.
Rovesciatala, Neville le sollevò la gonna e le iniettò nella natica morbida e carnosa il solfuro di allile; poi tornò a voltarla e fece un passo indietro. Per una mezz'ora rimase là a osservarla.
Non accadde nulla.
"È assurdo" argomentò tra sé. "Appendo l'aglio intorno alla casa e i vampiri stanno lontani. E la caratteristica dell'aglio è l'olio che ho iniettato in lei. Ma non è successo niente.
"Maledizione, non è successo niente!"
Sbatté via la siringa e, tremante di rabbia e di avvilimento, se ne tornò a casa. Prima che facesse buio, costruì una piccola struttura in legno sul prato di fronte alla casa e vi appese collane di cipolle. Trascorse una notte di apatia, trattenuto dall'abbandonarsi all'alcool soltanto dalla coscienza che c'era ancora molto da fare.
Al mattino uscì e trovò i frammenti della struttura di legno sul prato.
La croce. Ne reggeva una nella mano, dorata e lucente nella calda luce del mattino. Anche questa faceva fuggire i vampiri.
Perché? C'era una risposta logica, qualcosa che potesse accettare senza scivolare sulla buccia di banana del misticismo?
C'era un solo modo per scoprirlo.
Sollevò la donna dal letto, fingendo di non accorgersi della domanda che gli poneva la sua mente: "perché fai sempre i tuoi esperimenti su donne?" Si rifiutò di ammettere che l'insinuazione avesse validità. Era stata semplicemente la prima persona che aveva trovato, ecco tutto. E allora l'uomo nel soggiorno? "Per amor di Dio!" ribatté. "Non ho nessuna intenzione di violentare questa donna'"
"Incroci le dita, Neville? Tocchi legno?"
L'ignorò, cominciando a sospettare che nella sua mente si celasse un estraneo. Un tempo poteva averla chiamata coscienza. Ora era soltanto un disturbo. La morale, dopo tutto, era finita con la società. Lui era la propria etica.
"Sembra una buona scusa, vero, Neville? Ah, piantala."
Ma non avrebbe trascorso il pomeriggio vicino a lei. Dopo averla legata a una sedia, si rifugiò nella rimessa e armeggiò intorno alla macchina. La donna indossava un lacero abito nero e nel respirare si scopriva fin troppo. "Occhio non vede..." Era una bugia, lo sapeva, ma non l'avrebbe mai ammesso.
Infine, grazie al cielo, giunse la sera. Chiuse a chiave la porta della rimessa, rientrò in casa, chiuse l'uscio e lo sprangò. Poi si preparò da bere e sedette sul divano, di fronte alla donna.
Dall'alto, proprio di fronte al viso di lei, pendeva la croce.
Alle sei e mezzo, la donna aprì gli occhi. All'improvviso, come gli occhi di un dormiente che ha un ben preciso lavoro da fare appena sveglio; che non riprende coscienza in modo vago, ma con un unico movimento deciso, ben cosciente di ciò che deve essere fatto.
Poi vide la croce e ne distolse di scatto gli occhi con un improvviso rantolo e si contorse sulla sedia.
«Perché ne hai paura?» le chiese, trasalendo al suono della propria voce, dopo tanto tempo.
Lo sguardo della donna, d'improvviso su di lui, lo fece rabbrividire. La sua lucentezza, il modo in cui la sua lingua scorreva tra le labbra rosse come se fosse una vita distinta dentro la sua bocca. Il modo in cui fletteva il corpo come se cercasse di avvicinarsi a lui. Un brontolio gutturale le riempì la gola, simile al ringhio di un cane che difenda un osso.
«La croce» disse con nervosismo. «Perché ne hai paura?»
La donna fece forza contro i legami, graffiando i lati della sedia. Nemmeno una parola dalle sue labbra, soltanto una serie di sospiri rochi e ansanti. Il corpo si agitava sulla sedia, lo sguardo bruciava.
«La croce!» esclamò furibondo.
Balzò in piedi, rovesciando il bicchiere sul tappeto. Afferrò lo spago con dita rigide e fece oscillare la croce davanti agli occhi della donna. Lei distolse la testa con un ringhio di paura e si rannicchiò nella sedia.
«Guardala!» le urlò.
Emise un gemito carico di terrore; i suoi occhi si mossero impazziti in giro per la stanza, grandi occhi bianchi con pupille simili a macchie di fuliggine.
L'afferrò per la spalla, poi ritrasse di scatto la mano. Sanguinava, per le ferite prodotte dai suoi denti aguzzi.
Sentì contrarsi i muscoli dello stomaco. La mano si protese ancora, ma questa volta colpendo la donna con violenza sul viso e scagliandole la testa di lato.
Dieci minuti dopo ne scaraventò il corpo fuori dalla porta d'ingresso, sbattendo con violenza la porta sulle loro facce. Infine rimase appoggiato alla porta respirando a fatica. Attraverso l'isolamento udì debolmente le urla di quegli esseri che si battevano come sciacalli per le spoglie.
Più tardi si recò nel bagno e versò alcol sopra i segni dei denti, traendo un godimento selvaggio dal dolore che gli bruciava la carne.
8
Neville si chinò e raccolse con la mano destra un pugno di terra. La fece scorrere tra le dita, sbriciolandola. Quanti di loro, si chiese, dormivano sottoterra, come dice la leggenda?
Scosse la testa. Pochissimi, purtroppo.
Da dove nasceva la leggenda?
Chiuse gli occhi e lasciò che la polvere gli scendesse lenta dalla mano. C'era una risposta? Se soltanto avesse potuto ricordare se coloro che dormivano sottoterra fossero quelli tornati da morte. Allora avrebbe potuto fare delle ipotesi.
Ma non riusciva a ricordare. Ecco un'altra domanda senza risposta, da aggiungere alla domanda che si era rivolto la sera precedente.
Che avrebbe fatto un vampiro maomettano di fronte a una croce?
Sussultò al suono latrante della sua risata, nel silenzio del mattino. "Buon Dio", pensò, "è passato tanto tempo da quando ho riso che ho dimenticato come si fa." Sembrava un bracco malato con la tosse. "Be', è quello che sono, dopotutto, no?" concluse. "Un cane molto malato."
Verso le quattro di quel mattino c'era stata una leggera tempesta di polvere. Era strano, come gli riportasse i ricordi. Virginia, Kathy, tutti quei giorni orribili...
Si riprese. No, no, i ricordi erano pericolosi. Erano i ricordi del passato che lo portavano all'alcool. Doveva accettare il presente.
Si ritrovò a chiedersi ancora una volta perché avesse scelto di continuare a vivere. "Probabilmente", pensò, "non c'è una vera ragione. Sono soltanto troppo stupido per mettervi una fine."
"Bene" batté le mani con finta decisione "e adesso?" Si guardò attorno come se nell'immobilità di Cimarron Street ci fosse qualcosa da vedere.
"E sia" decise all'improvviso "vediamo se la faccenda dell'acqua corrente ha qualche senso."
Seppellì una canna di gomma nel terreno facendola correre in un piccolo condotto di legno. L'acqua correva attraverso il condotto e di qui attraverso un buco, in un'altra canna che portava l'acqua fin nella terra.
Quando ebbe finito, rientrò e fece una doccia, si rase e tolse la benda dalla mano. Le ferite si erano rimarginate nettamente. Ma di questo non si era molto preoccupato. Il tempo aveva più che provato che lui era immune dalla loro infezione.
Alle sei e venti andò nel soggiorno e rimase a guardare dallo spiraglio. Tese i muscoli, brontolando nel sentirli indolenziti. Quindi, dal momento che non succedeva nulla, si preparò da bere.
Quando tornò allo spiraglio, vide Ben Cortman arrivare attraverso il prato.
«Vieni fuori, Neville» mormorò Robert Neville e Cortman ripeté quelle parole come un'eco urlante.
Neville rimase immobile, a osservare Ben Cortman.
Non era cambiato molto, Ben. I capelli erano sempre neri, il corpo incline alla pinguedine, il viso sempre bianco. Ma ora su quel viso c'era la barba; fitta sotto il naso e più rada sulle guance, sul mento e sotto la gola. Era quella l'unica vera differenza. Ai vecchi tempi, Ben era sempre stato accuratamente rasato e ogni mattina profumava di colonia, quando veniva a prendere Neville per andare in fabbrica.
Era strano star lì a guardare Ben Cortman; un Ben che ormai gli era assolutamente estraneo. Una volta chiacchierava con quell'uomo, quando andavano al lavoro insieme, parlavano di automobili o di baseball o di politica, e, in seguito, dell'epidemia, di come stavano Virginia e Kathy, di come stava Freda Cortman, di come...
Neville scosse la testa. Era insensato ricordare quelle cose. Il passato era morto come Cortman.
Di nuovo scosse la testa. Il mondo era impazzito, pensò. "I morti camminano e io non me ne stupisco. La resurrezione della carne è diventata una banalità. Come si fa in fretta ad accettare l'incredibile, se lo si vede abbastanza!" Neville rimase là, a sorseggiare il whisky e a chiedersi chi gli ricordasse Ben. Aveva avuto l'impressione per qualche tempo che Cortman gli ricordasse qualcuno, ma finché era vivo non era mai riuscito a capirlo.
Scrollò le spalle. Che differenza faceva?
Posò il bicchiere sul davanzale e andò in cucina. Aprì l'acqua e tornò nel soggiorno. Quando giunse allo spioncino, vide sul prato, oltre a Cortman, un secondo uomo e una donna. Nessuno dei tre parlava agli altri. Non lo facevano mai. Camminavano e camminavano senza tregua, girando in tondo, l'uno intorno all'altro, come lupi, senza mai guardarsi una volta tra loro: avevano occhi affamati soltanto per la villetta e per la preda che essa conteneva.
Poi Cortman vide l'acqua scorrere sul prato e si avvicinò per guardare. Dopo un momento sollevò la sua faccia bianca e Neville lo vide sogghignare.
Neville s'irrigidì.
Cortman saltava sulla canna e poi indietro. Neville sentì un nodo alla gola. Il bastardo sapeva!
Con passo rigido andò in fretta nella camera da letto e, con un tremito alle mani, prese un'altra pistola dal cassetto del comò.
Cortman stava finendo di distruggere il condotto quando la pallottola lo colpì alla spalla sinistra.
Sobbalzò all'indietro con un grugnito e crollò sul marciapiede, scalciando. Neville sparò ancora e la pallottola fischiò sul cemento, a pochi centimetri dal corpo agitato di Cortman.
Cortman si alzò ringhiando e la terza pallottola lo colpì in pieno petto.
Neville rimase a guardarlo, aspirando il fumo acre della pistola. Poi la donna gli coprì la vista di Cortman e cominciò a rialzarsi la gonna.
Neville balzò indietro e chiuse di scatto il portello dello spioncino. Non voleva stare a guardare certe cose. In un istante, aveva sentito quel calore terribile risalirgli dai lombi come qualcosa di bruciante.
Più tardi guardò fuori di nuovo e vide Ben Cortman camminare sul prato, invitandolo a uscire.
Alla luce della luna, comprese d'un tratto chi gli ricordasse Cortman. L'idea lo fece tremare nel soffocare la risata e si allontanò dalla porta quando il tremito gli arrivò alle spalle.
"Dio... Oliver Hardy!" Le vecchie comiche che aveva guardato con il proiettore. Cortman era quasi il sosia del paffuto attore. Un po' meno grasso, ecco tutto. Ora ne aveva anche i baffi.
Oliver Hardy che ricade sulla schiena sotto la spinta delle pallottole. Oliver Hardy che torna sempre alla carica, senza tema di quanto possa accadergli. Sforacchiato dai proiettili, lacerato dai pugnali, appiattito dalle auto, seppellito sotto le macerie di un camino o di una nave, sommerso dall'acqua, scaraventato attraverso le tubazioni. E sempre di ritorno, paziente e sinistrato. Ecco chi era Ben Cortman: un odioso e malevolo Oliver Hardy, malmenato ed eternamente sconfitto.
Dio, che cosa ridicola!
Non riusciva a smettere di ridere, perché era più che una risata, era una liberazione. Le lacrime gli scesero lungo le guance. Il bicchiere che aveva nella mano veniva scosso a tal punto che l'alcool gli si rovesciava addosso suscitando in lui altre risate. Poi il bicchiere cadde con un tonfo sul tappeto mentre Neville veniva scosso da spasmi di incontrollabile ilarità che riempivano la stanza della sua nsata singhiozzante e nervosa.
Dopo, pianse.
Conficcò il paletto nello stomaco, nella spalla. Nel collo, con un solo colpo di mazzuolo; nelle gambe e nelle braccia e sempre con il medesimo risultato: il sangue che fiottava, denso e scarlatto, sulla carne bianca.
Credette di aver trovato la risposta. Dovevano perdere il sangue di cui vivevano: emorragia.
Ma poi trovò la donna nella villetta verde e bianca e quando le conficcò il paletto lei si dissolse con tale rapidità che Neville fu costretto a distogliersi di scatto e a vomitare la colazione.
Quando si fu ripreso abbastanza da poter guardare di nuovo, vide sopra il copriletto qualcosa che gli sembrò una mistura di sale e pepe, estesa per quella che era stata la lunghezza della donna. Era la prima volta che vedeva qualcosa del genere.
Scosso da quella vista, uscì dalla villetta con gambe tremanti e rimase seduto nell'automobile per circa un'ora, a vuotare la fiaschetta di whisky. Ma nemmeno l'alcol riusciva a cancellare quella visione.
Era stata una cosa tanto rapida. Il colpo del mazzuolo ancora gli risuonava nell'orecchio che lei si era già praticamente dissolta davanti ai suoi occhi.
Gli tornò in mente una conversazione con un nero, giù in fabbrica, che aveva studiato necroscopia e aveva raccontato a Robert Neville dei mausolei dove i cadaveri erano conservati in compartimenti a vuoto d'aria e non mutavano mai aspetto.
«Ma lascia entrare un po' di aria» gli aveva detto il negro «e puff!... sembreranno un mucchietto di sale e pepe. Così!»e aveva schioccato le dita.
Allora, la donna doveva essere morta da molto tempo. Forse, gli venne in mente, era uno dei vampiri che avevano dato origine all'epidemia. Dio solo sapeva per quanti anni era riuscita a gabbare la morte.
Era troppo snervato per fare altro per quel giorno o per diversi giorni a venire. Rimase a casa e bevve per dimenticare e lasciò che i cadaveri si ammucchiassero sul prato e lasciò che all'esterno la villetta se ne andasse in rovina.
Rimase seduto per giorni nella poltrona con il suo alcol, a pensare alla donna. E, per quanto si sforzasse di non farlo, per quanto bevesse, continuò a pensare a Virginia. Continuò a vedere se stesso entrare nella cripta e sollevare il coperchio della bara.
Pensò che gli stesse venendo qualche malattia, tanto torpido e inerte gli appariva il suo tremore, tanto si sentiva freddo e debole.
Era ridotta così anche lei?
9
Mattino. Un silenzio assolato, rotto solamente dal coro degli uccelli sugli alberi. Nemmeno una brezza a smuovere le infiorescenze tutt'intorno alle villette, i cespugli, le siepi dalle foglie scure. Una nube di calore silente era sospesa su tutta Cimarron Street.
Il cuore di Virginia Neville si era fermato.
Robert sedeva accanto a lei sul letto, guardando il suo viso bianco. Teneva le sue dita nella mano, continuando ad accarezzarle con i polpastrelli. Anche il suo corpo stava immobile: un rigido e insensibile blocco di carne e di ossa. Non muoveva nemmeno le palpebre, la bocca era una linea statica, e il movimento della respirazione era tanto leggero che sembrava essersi fermato anch'esso.
Alla sua mente era accaduto qualcosa.
Nell'istante in cui non aveva più avvertito il battito del cuore di lei sotto le sue dita tremanti, gli era sembrato che il nucleo del suo cervello si fosse pietrificato, emanando irregolari linee di calcificazione finché si era sentito la testa come pietra. Lentamente, con le gambe intorpidite, si era lasciato cadere sul letto. E ora, vagamente, nel profondo dei suoi tessuti cerebrali, non arrivava a capire come potesse star lì seduto, non arrivava a capire come mai la disperazione non lo schiacciasse a terra. Ma la prostrazione non sarebbe arrivata. Il tempo era stato preso all'amo e non poteva più avanzare. Ogni cosa rimaneva fissa. La vita e il mondo si erano fermati di colpo insieme a Virginia.
Trascorsero trenta minuti; quaranta.
Poi, lentamente, come se stesse scoprendo un fenomeno soggettivo, si accorse che il suo corpo tremava. Non un tremito localizzato, un nervo qui, un muscolo là. Era un tremito totale: il suo corpo tremava incessantemente, un'intera massa di nervi senza controllo, privo di volontà. E quanto era rimasto di attivo nella sua mente comprendeva che quella era la sua reazione.
Per più di un'ora rimase seduto in quello stato atono, lo sguardo sbarrato e fisso sul viso di lei.
Poi, di colpo, finì e con un borbottio soffocato, si alzò di scatto e lasciò la stanza.
Metà del whisky si rovesciò nell'acquaio mentre si riempiva il bicchiere. Ingollò in un sorso l'alcool che era riuscito a trovare la via del bicchiere. La corrente sottile gli riscaldò il percorso fino allo stomaco, con una sensazione due volte più intensa del normale, nel polare torpore della sua carne. Rimase afflosciato contro l'acquaio.
Con mani tremanti riempì di nuovo il bicchiere fino all'orlo e bevve il whisky bruciante a grandi sorsi convulsi.
"È un sogno" tentò di convincersi. Sembrava che una voce gridasse le parole dentro la sua testa.
«Virginia...»
Cominciò a girare da un angolo all'altro; gli occhi frugavano la stanza come se si aspettasse di trovarvi qualcosa, come se avesse smarrito l'uscita da quella casa dell'orrore. Gemiti di incredulità gli risuonavano nella gola. Premette le mani una contro l'altra, stringendo le palme tremanti e intrecciando le dita.
Le mani gli tremavano talmente che non riusciva a distinguerne la forma. Respirando convulsamente, le staccò e le strinse contro le gambe.
«Virginia.»
Fece un passo avanti e gridò mentre sembrava che la stanza gli crollasse addosso. Sentì un dolore acuto al ginocchio destro, che gli si ripercosse lungo la gamba. Gemette nel rialzarsi e andò barcollando nel soggiorno. Là rimase come una statua nel mezzo di un terremoto, gli occhi vitrei fissi sulla porta della camera da letto.
Nella sua mente rivide una scena.
Il grande rogo, un crepitio giallo e ruggente, che spinge verso il cielo nubi dense e grasse. Il piccolo corpo di Kathy tra le sue braccia. Un uomo arriva, gliela strappa dalle braccia come se si trattasse di un fagotto di stracci. L'uomo scompare tra il fumo scuro, portando via la sua bambina. Lui rimane là, inchiodato al suolo dall'orrore che lo travolge.
Poi d'un tratto balza in avanti gridando con una certa violenza: «Kathy!»
Le braccia lo afferrano, gli uomini in tuta e maschera d'amianto lo spingono indietro. I suoi tacchi arano freneticamente il terreno, lasciando due solchi bizzarri mentre lo trascinano via. Il cervello sembra esplodergli, mentre riempie l'aria con le sue grida di orrore.
Poi, alla mascella, il lampo improvviso di un dolore che stordisce, e la luce del giorno che scompare tra nubi buie. Il caldo liquore che gli fluisce nella gola, la tosse, un ansito, e poi eccolo seduto silenzioso e rigido nella macchina di Ben Cortman, fissando, mentre si allontanano, la gigantesca cortina di fumo che si alza sopra la terra come il nero fantasma di tutta la disperazione del mondo.
A questo ricordo, chiuse di colpo gli occhi e strinse i denti fino a farli dolere.
«No!»
Non avrebbe portato laggiù Virginia. Nemmeno se l'avessero ucciso.
Muovendosi lento e rigido, si avviò alla porta d'ingresso e uscì sotto il portico. S'inoltrò sul prato ingiallito e si diresse lungo l'isolato verso la villetta di Ben Cortman. Il bagliore del sole gli fece stringere le pupille. Le mani gli dondolavano lungo i fianchi, inutili e intorpidite.
Il carillon del campanello eseguiva ancora il motivetto di Se potessi bere. Tale assurdità gli fece venir voglia di spaccare qualcosa con le mani. Gli venne in mente quando Ben lo aveva installato con l'idea che sarebbe stato divertente.
Aspettò rigido davanti alla porta, con la mente in subbuglio. "Me ne frego della legge, me ne frego se violarla significa la morte, non voglio portarla laggiù!"
Batté con il pugno contro la porta.
«Ben!»
Silenzio nella casa di Ben Cortman. Tende bianche chiudevano immobili le finestre. Poteva scorgere il divano rosso, la lampada a stelo con il paralume a frange, il pianoforte verticale con cui Frau Freda si dilettava i pomeriggi della domenica. Batté le palpebre. Che giorno era? Se ne era dimenticato, aveva perduto la cognizione dei giorni.
Raddrizzò le spalle mentre una furia impaziente gli riversava acido nelle vene.
«Ben!»
Ancora il suo pugno tempestò la porta mentre le mascelle gli si contraevano, sbiancandosi. Maledetto, dove si era cacciato? Neville premette il campanello, con un dito tremante, e il carillon riprese la canzone del beone ancora e ancora e ancora. Se potessi bere, se potessi bere, se potessi bere, se potessi bere...
Con un ansito frenetico si lanciò contro la porta che si spalancò andando a sbattere contro la parete all'interno. Non era chiusa a chiave.
Si inoltrò nel soggiorno silenzioso.
«Ben» chiamò a voce alta. «Ben, ho bisogno della tua macchina.»
Li trovò nella stanza da letto, immobili e silenziosi nel coma diurno, distesi sui loro letti gemelli, Ben in pigiama, Freda in camicia da notte di seta; distesi sopra le lenzuola, i loro ampi petti mossi da un respiro faticoso.
Rimase a osservarli immobile per un momento. Sul collo bianco di Freda c'erano delle ferite su cui era incrostato del sangue. Spostò lo sguardo su Ben. Non c'erano ferite sul collo dell'amico e udì una voce ripetergli il motivetto nel cervello: "Se potessi svegliarmi".
Scosse la testa. No, non c'era risveglio da questo.
Trovò le chiavi della macchina sul comò e le prese. Se ne andò lasciandosi alle spalle la casa silenziosa. E fu l'ultima volta che li vide entrambi vivi.
Il motore riprese vita tossendo; lo lasciò in folle per qualche minuto, con l'aria tirata. Tenne lo sguardo fisso attraverso il parabrezza polveroso. Una mosca venne a ronzargli con la sua forma turgida intorno alla testa, all'interno caldo e mal ventilato della macchina. Ne osservò il verde luccichio opaco e sentì la macchina vibrare sotto di lui.
Dopo un poco chiuse l'aria e portò la macchina in strada. La parcheggiò nel vialetto davanti alla sua rimessa e spense il motore.
La casa era fredda e silenziosa. I suoi passi frusciarono sul tappeto e poi risuonarono sul pavimento di legno ned corridoio.
Rimase immobile sulla soglia, a guardarla. Giaceva ancora supina, le braccia lungo i fianchi, le dita bianche, leggermente incurvate. Sembrava che dormisse.
Si volse e tornò nel soggiorno. Che doveva fare? Le scelte sembravano inutili, ormai. Che importanza aveva quel che avrebbe fatto? La vita sarebbe stata egualmente priva di scopo, quale che fosse la sua decisione.
Rimase davanti alla finestra osservando la strada calma e soleggiata, con sguardo vacuo.
"Perché ho preso la macchina, allora?" si chiese. Deglutì. "Non posso bruciarla" pensò. "Non lo farò." Ma cos'altro fare? Le agenzie funebri erano chiuse. I pochi necrofori ancora abbastanza in salute da restare in servizio, ne erano impediti dalla legge. Tutti, senza eccezione, dovevano essere trasportati ai roghi subito dopo la morte. Era l'unico sistema che conoscessero per prevenire il contagio. Soltanto le fiamme potevano distruggere i batteri che avevano causato l'epidemia.
Lo sapeva. Sapeva che era quella la legge. Ma quanta gente le obbediva? Anche quello si chiese. Quanti mariti prendevano le donne con cui avevano diviso vita e amore per gettarle tra le fiamme? Quanti genitori cremavano i figli che adoravano, quanti bambini gettavano i loro amati genitori sopra un rogo di cento metri quadrati e profondo trenta metri?
No, se qualcosa era rimasto in quel mondo, era la sua promessa che non l'avrebbe fatta cremare nel rogo.
Passò un'ora, prima che arrivasse finalmente a una decisione.
Poi andò a prendere ago e filo.
Continuò a cucire finché soltanto il viso di lei rimase fuori. Poi, con dita tremanti e un nodo allo stomaco, cucì la coperta sopra la sua bocca. Sopra il naso. Gli occhi.
Quando ebbe finito, tornò in cucina e bevve un altro bicchiere di whisky. Sembrava che non gli facesse niente.
Infine tornò barcollando in camera da letto. Per un lungo momento rimase immobile respirando rauco. Poi si chinò e infilò il braccio sotto la forma inerte.
«Andiamo, cara» sussurrò.
Tali parole sembrarono dar via libera a tutto. Si sentì tremare, sentì le lacrime corrergli lungo le guance mentre la portava attraverso il soggiorno e poi fuori.
La depose sul sedile posteriore ed entrò in macchina. Inspirò profondamente e allungò la mano verso l'accensione.
S'immobilizzò. Uscito di nuovo dalla macchina, corse nella rimessa a prendere la pala.
Sobbalzò quando tornò fuori, vedendo l'uomo che si avvicinava lentamente dall'altro lato della strada. Sistemò la pala nel bagagliaio e risalì in macchina.
«Aspettate!»
Il grido dell'uomo era rauco. L'uomo cercava di correre, ma non era abbastanza in forze.
Robert Neville rimase seduto in silenzio mentre l'uomo si avvicinava con passo strascicato.
«Potreste... lasciarmi portare mia... anche mia madre?» chiese a fatica.
«Non... non... non...»
Il cervello di Neville si rifiutava di funzionare. Credette di stare per piangere ancora, ma si trattenne e raddrizzò la schiena.
«Non vado al... laggiù»rispose.
L'uomo lo guardò attonito.
«Ma vostra...»
«Non vado ai roghi, vi ho detto!» esclamò Neville e inserì furente l'accensione.
«Ma vostra moglie» insisté l'uomo. «Là c'è vostra mo...»
Robert Neville inserì la marcia indietro, con violenza.
«Vi prego» implorò l'uomo.
«Non vado laggiù!»urlò Neville senza guardare l'uomo.
«Ma è la legge!»gli gridò di rimando l'uomo, d'un tratto furente.
La macchina percorse all'indietro rapida tutta la via e Neville manovrò fino a trovarsi di fronte il Compton Boulevard. Nel partire, vide l'uomo sull'orlo del marciapiede con lo sguardo ancora fisso su di lui. "Pazzo!" lo insultò mentalmente. "Pensi che voglia gettare mia moglie in un rogo?"
Le strade erano deserte. Girò a sinistra nel Compton Boulevard e si diresse a ovest. Mentre guidava, guardava il vasto terreno sulla destra della macchina. Non poteva usare nessuno dei cimiteri. Erano chiusi e sorvegliati. Coloro che avevano tentato di seppellire i loro cari erano stati abbattuti a fucilate.
Arrivato all'isolato seguente, girò a destra e, dopo averlo superato, a destra di nuovo in una stradina tranquilla che finiva in un campo. A metà di quell'isolato spense il motore, e proseguì per inerzia in modo che nessuno udisse il rumore della macchina.
Nessuno lo vide togliere dalla macchina il cadavere o trasportarlo frammezzo all'erba alta del terreno. Nessuno lo vide deporla su uno spiazzo sgombro e scomparire alla vista nell'inginocchiarsi.
Scavò lentamente, spingendo la pala nella terra soffice, mentre il sole splendente riversava calore nella piccola radura come aria liquefatta dentro un piatto. Il sudore gli corse in rivoli giù per le guance e la fronte mentre scavava, e il terreno gli baluginava di fronte agli occhi. La terra scavata gli riempiva le narici di un odore caldo e pungente.
Infine la fossa fu scavata. Depose la pala e si inginocchiò. Tremava per tutto il corpo e il sudore gli colava sul viso. Quello era il momento peggiore.
Ma sapeva di non poter aspettare. Se l'avessero visto sarebbero venuti a prenderlo. Essere ucciso era niente. Però lei sarebbe stata bruciata. Strinse le labbra. No.
Dolcemente, con la maggior delicatezza possibile, ne calò il corpo nella tomba profonda, badando a che non battesse il capo.
Si rialzò e guardò il corpo di lei immobile, cucito nella coperta. Per l'ultima volta, pensò. Niente più parole, niente più amore. Undici anni meravigliosi finiti sotto terra. Cominciò a tremare. No, comandò a se stesso, non c'è tempo per questo.
Non serviva. Un mondo distorto luccicava attraverso lacrime senza fine mentre comprimeva il terreno caldo, intorno alla forma immobile, con dita senza forza.
Giaceva completamente vestito sul letto, fissando il soffitto buio. Era mezzo ubriaco e l'oscurità riluceva di scintille.
Il braccio destro annaspò in cerca del comodino. La mano urtò la bottiglia: protese le dita per afferrarla, ma troppo tardi. Poi si lasciò andare e giacque nell'immobilità della notte, ascoltando il gorgoglio del whisky che usciva dalla bottiglia a spandersi sul pavimento.
I capelli arruffati frusciarono sul cuscino quando si volse a guardare l'orologio. Le due del mattino. Due giorni da quando l'aveva sepolta. Due occhi che guardano l'orologio, due orecchie che raccolgono il brusio della sua cronologia elettrica, due labbra premute insieme, due mani abbandonate sul letto.
Cercò di liberarsi del concetto, ma ogni cosa nel mondo sembrava precipitata in un pozzo di dualità, vittima di un sistema dualistico. Due persone morte, due letti in una stanza, due finestre, due comò, due tappeti, due cuori che...
Si riempì i polmoni dell'aria notturna, la trattenne, poi la espirò e si afflosciò d'improvviso. Due giorni, due mani, due occhi, due gambe e due piedi...
Sedette e lasciò scivolare le gambe giù dal letto. I piedi finirono nella pozza di whisky, che gli inzuppò le calze. Una brezza fredda agitava rumorosamente le imposte.
Fissò le tenebre. "Che rimane?" si chiese. "Che rimane?"
Si alzò stancamente e andò barcollando nel bagno, lasciando dietro di sé tracce umide. Si lavò la faccia e annaspò in cerca di un asciugamano.
"Che rimane? Che..."
Si irrigidì d'un tratto in quella fredda oscurità.
Qualcuno stava girando la maniglia della porta d'ingresso.
Sentì un brivido corrergli lungo la nuca e gli si rizzarono i capelli. "È Ben" gli suggerì la sua mente. "È venuto a prendere le chiavi della macchina."
L'asciugamano gli scivolò dalle dita; lo sentì afflosciarsi sulle piastrelle. Trasalì.
Un colpo risuonò contro la porta; senza forza, come se fosse ca duto sul legno.
Si mosse lentamente attraverso il soggiorno, il cuore gli batteva pesantemente.
La porta vibrò a un altro debole colpo. Trasalì ancora a quel suono. "Che succede?" si chiese. "La porta è aperta." Dalla finestra aperta un soffio freddo gli sfiorò il viso. L'oscurità lo guidò fino alla porta.
«Chi...» mormorò, incapace di dire altro.
Ritrasse la mano dalla maniglia quando la sentì girare sotto le dita. Arretrò di un passo appoggiandosi alla parete, respirando rauco, gli occhi sbarrati e fissi.
Non accadde nulla. Rimase là, irrigidito.
Poi gli mancò il respiro. Qualcuno sotto il portico mormorava, mormorava parole che non riusciva a cogliere. Si fece coraggio; poi, con un balzo, spalancò la porta e lasciò entrare la luce della luna.
Non riuscì nemmeno a gridare. Rimase soltanto inchiodato dove si trovava, fissando esterrefatto Virginia.
«Rob... ert» disse lei.
10
La sala delle Scienze era al primo piano. I passi di Robert Neville echeggiavano sordamente sui gradini di marmo della biblioteca pubblica di Los Angeles. Era il 7 aprile 1976.
Aveva capito, dopo alcuni giorni di ubriachezza, di disgusto, e di saltuarie ricerche, che stava sprecando il proprio tempo. Esperimenti isolati non portavano a nulla, questo era chiaro. Se c'era una risposta razionale al problema (e doveva credere che ci fosse), poteva trovarla soltanto attraverso attente ricerche.
A titolo sperimentale, mancando di cognizioni migliori, aveva elaborato una ipotesi possibile, basata sul sangue. Disponeva, se non altro, di un punto di partenza. Il primo passo, quindi, era di documentarsi sul sangue.
Il silenzio della biblioteca era assoluto, fatta eccezione per il rimbombo dei suoi passi mentre percorreva il corridoio del secondo piano. Fuori, si udivano a volte gli uccelli e, anche quando essi tacevano, sembrava provenisse da fuori una specie di suono. Inesplicabile, forse, ma all'aperto non sembrava mai esserci un'immobilità assoluta come dentro un edificio.
Specialmente là, in quel gigantesco e grigio edificio che racchiudeva la letteratura di un mondo morto. Probabilmente era il fatto di essere circondato da mura, qualcosa di puramente psicologico. Ma saperlo non rendeva le cose più facili. Non c'erano più psichiatri a borbottare di nevrosi senza fondamento e di allucinazioni uditive.
L'ultimo uomo sulla terra era irreparabilmente legato alle proprie allucinazioni.
Entrò nella sala delle Scienze.
Era una sala dal soffitto alto, con finestre alte e ampie. Di fronte all'ingresso stava il banco dove venivano registrati i libri nei giorni in cui i libri venivano ancora dati in prestito.
Si fermò là per un attimo a osservare la sala silenziosa, scuotendo lentamente la testa. Tutti quei libri, pensò, il residuo dell'intelletto di un pianeta, lo sforzo di futili menti, gli avanzi, l'accozzaglia di prodotti che non erano stati capaci di salvare gli uomini dalla distruzione.
I suoi passi risuonarono sulle piastrelle scure mentre si avviava ai primi scaffali sulla sinistra. Il suo sguardo si mosse lungo i cartellini inchiodati sul fronte di ogni scaffale. ASTRONOMIA, lesse; libri sui cieli. Se ne allontanò. Non erano i cieli che lo interessavano. La brama dell'uomo verso le stelle era morta insieme alle altre. FISICA, CHIMICA, INGEGNERIA. Passò oltre e arrivò alla zona di lettura della sala delle Scienze.
Si fermò e alzò lo sguardo verso l'alto soffitto. C'erano due file di luci morte in alto, il soffitto era diviso in grandi quadrati concavi, ognuno dei quali decorato con una specie di mosaico indiano. Il sole mattutino filtrava attraverso le finestre polverose e Neville vide granelli di polvere fluttuare dolcemente sulla corrente dei suoi raggi.
Osservò la fila dei lunghi tavoli di legno con le sedie allineate dietro di essi. Qualcuno le aveva sistemate con molta cura. Il giorno in cui la biblioteca era stata chiusa, pensò, qualche bibliotecaria zitella aveva percorso tutta la sala, spingendo ogni sedia al suo posto. Con attenzione, con una precisione pignola che doveva essere la sua caratteristica.
Pensò a questa immaginaria signorina. Morire, pensò, senza aver mai conosciuto l'ardente felicità e l'assiduo conforto dell'abbraccio di chi si ama. Sprofondare in quell'orribile coma, sprofondare nella morte e magari tornare in vagabondaggi sterili e spaventosi. E tutto senza conoscere cosa voglia dire amare ed essere amata.
Era una tragedia, ancora più terribile che diventare un vampiro.
Scosse la testa. "Va bene, basta" si disse "non hai tempo per fantasticherie sentimentali."
Si aggirò tra i libri finché arrivò a MEDICINA. Era quello che voleva. Dette un'occhiata ai titoli. Libri sull'igiene, sull'anatomia, sulla fisiologia (generale e specialistica), su pratiche mediche. Ancora più avanti, sulla batteriologia.
Tirò fuori cinque libri sulla fisiologia generale e parecchi testi sul sangue. Li accatastò su uno di quei tavoli polverosi. Doveva prendere dei libri di batteriologia? Si fermò un attimo, guardando indeciso i dorsi di tela.
Alla fine scrollò le spalle. "Be', fa forse differenza? Male non me ne faranno." Ne prese alcuni a caso e li unì alla pila. Adesso sul tavolo aveva nove libri. Ce n'era abbastanza per cominciare. Supponeva che sarebbe dovuto tornare.
Mentre usciva dalla sala delle Scienze, gettò un'occhiata all'orologio sopra la porta.
Le rosse lancette si erano fermate alle quattro e ventisette. Si chiese in quale giorno si fossero fermate. Mentre scendeva le scale con la sua bracciata di libri, si chiese in quale preciso momento l'orologio si fosse fermato. Era successo di mattina o di pomeriggio? Stava piovendo o splendeva il sole? C'era qualcuno quando si era fermato?
Scosse le spalle irritato. Per amor di Dio, qual era la differenza? si chiese. Cominciava a essere disgustato da questa sua crescente nostalgica preoccupazione per il passato. Era una debolezza, lo sapeva; una debolezza che non poteva concedersi, se intendeva andare avanti. Eppure continuava a sorprendersi nell'atto di immergersi in profonde meditazioni sugli aspetti del passato. Era quasi più di quanto potesse controllare e lo rendeva furioso con se stesso.
Non riuscì ad aprire nemmeno dall'interno le grosse porte d'ingresso; erano chiuse troppo bene. Dovette uscire di nuovo dalla finestra rotta, prima gettando i libri sul marciapiede uno alla volta, poi uscendo lui stesso. Portò i libri in macchina ed entrò.
Mentre metteva in moto, si accorse che aveva parcheggiato in una zona di divieto di sosta, contromano in un senso unico. Guardò da un lato all'altro della strada.
«Agente!» si trovò a gridare. «Ehi, agente!»
Rise senza fermarsi per un chilometro e mezzo, chiedendosi che cosa ci trovasse di tanto buffo.
Depose il libro. Aveva letto di nuovo la descrizione del sistema linfatico. Ricordava vagamente di averla letta, alcuni mesi prima, nel periodo che ora aveva soprannominato "frenetico". Ma ciò che aveva letto non gli era rimasto impresso, allora, perché non c'era nulla a cui potesse applicarlo.
Sembrava che adesso ci fosse invece qualcosa.
Le sottili pareti dei vasi capillari permettevano al plasma sanguigno di filtrare nei tessuti insieme ai globuli rossi e bianchi. Questi materiali sfuggiti ritornavano in seguito nella circolazione sanguigna attraverso i vasi linfatici: erano riportati dal liquido chiamato linfa.
Durante il flusso di ritorno, la linfa stillava attraverso i nodi linfatici che interrompevano il flusso e filtravano le particelle solide di rifiuto, impedendo loro di penetrare nel sistema sanguigno.
Dunque.
Due cose attivavano il sistema linfatico: 1) la respirazione, che, portando il diaframma a comprimere il contenuto addominale, spingeva il sangue e la linfa a risalire nonostante la gravità; 2) il movimento fisico, che permetteva ai muscoli di comprimere i vasi linfatici, facendo così muovere la linfa. Un complesso sistema di valvole preveniva ogni riflusso.
Però i vampiri non respiravano; almeno, non quelli morti. Questo significava, in poche parole, che metà del loro flusso linfatico era bloccato. Questo significava inoltre che nel sistema circolatorio del vampiro rimaneva una considerevole quantità di scorie.
Robert Neville ripensò all'odore fetido del vampiro.
Riprese a leggere.
I batteri passano nei vasi sanguigni dove...
...i globuli bianchi svolgono un compito vitale nella difesa del corpo dagli attacchi batterici.
Una forte luce solare uccide con rapidità molte varietà di germi e...
Molte infezioni batteriche dell'uomo possono essere diffuse da agenti meccanici come mosche, zanzare...
...dove, sotto lo stimolo di un attacco batterico, le centrali dei fagociti immettono cellule in soprannumero nella circolazione sanguigna.
Abbassò il libro sulle ginocchia e questo scivolò sul tappeto con un tonfo sordo.
Diventava una battaglia sempre più difficile, perché qualunque cosa leggesse c'era sempre una relazione tra i batteri e le infezioni del sangue. Eppure, lui aveva sempre disprezzato coloro che nel passato erano morti proclamando la verità della teoria virale e ridendosene dei vampiri.
Si alzò e si preparò da bere. Ma il bicchiere rimase appoggiato sul ripiano mentre lui rimaneva in piedi accanto al bar. Lentamente, ritmicamente, picchiò il pugno destro sul ripiano con lo sguardo fisso alla parete.
Virus.
Fece una smorfia. "Be', per amor di Dio" ribatté stancamente a se stesso "la parola non morde, lo sai."
Inspirò profondamente. "D'accordo" cercò di imporsi "c'è qualche motivo perché non possano essere i virus?"
Si scostò dal bar come se avesse potuto lasciarvi la domanda. Ma le domande non hanno residenza: possono seguirti ovunque.
Sedette in cucina con lo sguardo fisso in una fumante tazza di caffè. "Germi. Batteri. Virus. Vampiri. Perché vi sono tanto contrario?" pensò. Era soltanto per testardaggine reazionaria, oppure perché lo sforzo sarebbe stato tremendo se si fosse trattato di germi?
Non lo sapeva. Si gettò su una nuova linea, la linea del compromesso. Perché scartare una o l'altra teoria? Una non negava l'altra, non necessariamente. Accettazione dualistica e correlazione, pensò.
I batteri potrebbero essere la risposta al problema del vampiro.
Allora tutto sembrò più chiaro.
Era come se lui fosse stato il ragazzo olandese con il dito nella falla della diga, che si rifiutava di lasciar passare il mare della ragione. Là era rimasto, rannicchiato e soddisfatto con la sua ferrea teoria. Adesso si era sollevato e aveva tolto il dito dalla falla. Il mare delle risposte già cominciava a riversarsi.
L'epidemia si era diffusa molto rapidamente. Sarebbe stato possibile se soltanto i vampiri l'avessero diffusa? Era possibile che le loro scorrerie notturne l'avessero propagata tanto in fretta?
L'improvvisa risposta lo fece trasalire. Soltanto accettando la teoria virale era possibile spiegare la fantastica rapidità dell'epidemia, la progressione geometrica delle vittime.
Spinse da parte la tazza di caffè, con una dozzina di diverse idee che gli ronzavano in testa.
Le mosche e le zanzare ne erano state una parte. Diffondendo la malattia, e propagandola in tutto il mondo.
Sì, i batteri spiegavano molte cose; il rimanere nascosti durante il giorno, in uno stato di coma indotto dai germi per proteggersi dalle radiazioni solari.
Una nuova idea: se i batteri fossero la forza del vero vampiro?
Sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Era possibile che lo stesso germe che uccideva i vivi, fornisse l'energia ai morti?
Doveva saperlo! Balzò in piedi e fece per correre fuori di casa. Poi, all'ultimo istante, si ritrasse di scatto dalla porta con una risata nervosa. "Buon Dio" pensò "sto diventando matto?" Era ormai buio. Sogghignò e prese a passeggiare irrequieto per il soggiorno.
Poteva questa teoria spiegare le altre cose? Il paletto? Affaticò la mente nel tentativo di adattarla alla causa batterica. "Avanti!" si incitò con impazienza. Ma non riuscì a pensare ad altro che all'emorragia, e questo non spiegava quel che era successo alla donna. E non era nemmeno il cuore...
La scartò, timoroso che la sua nuova teoria cominciasse a disgregarsi prima ancora di averla definita.
La croce, allora. No, i batteri non potevano spiegarla. Il terreno; no, nemmeno questo serviva. L'acqua corrente, lo specchio, l'aglio...
Sentì che stava tremando senza controllo e avrebbe voluto urlare per fermare il cavallo impazzito della sua mente. Doveva trovare qualcosa! "Maledizione!" si infuriò silenziosamente. "Non voglio arrendermi!"
Si costrinse a sedere. Tremante e irrigidito, rimase seduto e cercò di vuotarsi la mente finché giunse la calma. "Signore, pensò infine, che cosa mi succede? Mi viene un'idea e, se questa non spiega tutto di colpo, mi lascio prendere dal panico. Sto proprio impazzendo."
Riprese il bicchiere abbandonato; ne aveva bisogno. Sollevò la mano finché questa smise di tremare. "Su, da bravo, ragazzo" cercò di prendersi in giro, "calmati adesso. Sta arrivando Babbo Natale con tante belle rispostine. Non sarai più un balordo Robinson Crusoe, prigioniero di un'isola oscura circondata da un oceano di morte."
Sogghignò alla battuta, e questo l'aiutò a rilassarsi. "Pittoresco" pensò "gustoso. L'ultimo uomo sulla terra è Edgar Guest, il famoso umorista.
"Benissimo, allora" si ordinò "adesso te ne vai a letto. Non devi svolazzartene in venti direzioni diverse. Non te lo puoi più permettere; da un punto di vista emotivo sei un fallimento."
Il primo passo era di procurarsi un microscopio. "Questo è il primo passo" continuò a ripetersi con insistenza mentre si spogliava per andare a letto, ignorando l'indecisione che gli attanagliava lo stomaco, il bisogno quasi doloroso di buttarsi direttamente nelle ricerche senza alcuna base.
Quasi si sentì male, mentre giaceva al buio a far programmi avanzando di un solo passo. Sapeva che doveva fare così. "È il primo passo, è il primo passo. Accidenti a te, è il primo passo."
Sorrise, nel buio, sentendosi ottimista circa il ben determinato lavoro da fare.
Si concesse un solo pensiero sul problema, prima di dormire. I morsi, gli insetti, la trasmissione da persona a persona... erano abbastanza per spiegare la terribile velocità con la quale si era propagata l'epidemia?
Si addormentò con quella domanda in mente. E, circa alle tre del mattino, si svegliò e trovò la casa scossa da un'altra tempesta di polvere. Di colpo, in un lampo, comprese il collegamento.
11
Il primo che trovò non valeva molto.
La base era così mal bilanciata che la minima vibrazione lo disturbava. Il gioco delle parti mobili era tanto ampio da provocare oscillazioni. Lo specchio continuava a spostarsi perché i perni non erano abbastanza stretti. Per di più, lo strumento non aveva nemmeno un sottopiano per reggere il condensatore o il polarizzatore. Aveva un solo portaobiettivi, così che era costretto a sostituire gli obiettivi quando aveva bisogno di cambiare ingrandimento. Gli obiettivi erano pessimi.
Ma, ovviamente, non se ne intendeva di microscopi e aveva preso il primo che aveva trovato. Tre giorni dopo lo scaraventò contro il muro, soffocando una bestemmia, e lo fece a pezzi sotto i tacchi.
Poi, quando si fu calmato, tornò alla biblioteca a prendere un libro sui microscopi.
La volta seguente, non tornò a casa finché non ebbe trovato uno strumento decente: tre obiettivi, sottopiano per condensatore e polarizzatore, base stabile, movimento scorrevole, diaframma a iride, obiettivi ottimi. "È soltanto un esempio in più" si disse "della stupidità di partire con il piede sbagliato. Bravo, bravo, bravo", si rispose seccato.
Si costrinse a esercitarsi a lungo per familiarizzare con lo strumento.
Si divertì con lo specchio finché riuscì a dirigere il raggio luminoso sull'oggetto in pochi secondi. S'impratichì dell'uso degli obiettivi, variandone la focale da 9 centimetri a 2 millimetri e mezzo. Nel secondo caso, imparò a mettere sul vetrino una goccia di olio di cedro, poi ad avvicinarsi fino a quando l'obiettivo toccava l'olio. In questo modo, ruppe tredici vetrini.
In tre giorni di studio continuo, riuscì a manovrare le viti micrometriche con rapidità, a controllare il diaframma a iride e il condensatore per ottenere sul vetrino l'esatta luminosità, e presto arrivò a una ben definita messa a fuoco con i vetrini già pronti che si era procurato.
Non avrebbe mai supposto che una pulce fosse tanto mostruosa.
Poi venne la preparazione degli strisci, un processo assai più difficile, come scoprì presto.
Per quanto provasse, sembrava che non riuscisse a tener lontane le particelle di polvere dallo striscio. Quando li osservava al microscopio, gli sembrava di stare esaminando dei macigni.
Era particolarmente difficile a causa delle tempeste di polvere che ancora si verificavano con una media di una ogni quattro giorni. Infine fu costretto a erigere una tenda sopra il bancone.
Imparò anche a essere più ordinato durante gli esperimenti con gli strisci. Scoprì che dover cercare di continuo le cose, lasciava molto più tempo alla polvere per accumularsi sui vetrini. A malincuore, ma quasi divertito, dovette dare un posto a ogni cosa. I vetrini, i coprioggetti, le pipette, i vetrini a incavo, le pinze, i contenitori per la gelatina di coltura, gli aghi, i reagenti chimici: erano tutti allineati sistematicamente.
Scoprì, con sorpresa, che in realtà traeva piacere dall'avere ogni cosa in ordine. "Credo di avere in me il sangue del vecchio Fritz, in fondo" pensò una volta con divertimento.
Poi si procurò un campione di sangue, da una donna.
Gli ci vollero giorni per preparare nel modo giusto alcune gocce di sangue nei vetrini a incavo giustamente centrati sul piatto. Arrivò perfino a pensare che non gli sarebbe mai riuscito.
Ma poi giunse il mattino in cui, semplicemente, come fosse cosa di poca importanza, pose sotto l'obiettivo il trentasettesimo vetrino di sangue, accese la luce, regolò il tubo ottico e lo specchio, regolò il diaframma e il condensatore. A ogni secondo, gli sembrava che il cuore aumentasse i battiti, come se in un certo modo sapesse che era giunto il momento.
Il momento arrivò; Neville trattenne il respiro.
Non era un virus, allora, non puoi vederlo un virus. E là, che vibrava delicatamente sul vetrino, c'era un germe.
"Io ti battezzo vampiris." Le parole gli traversarono la mente, mentre l'osservava attraverso l'oculare.
Consultando uno dei testi di batteriologia, scoprì che il batterio cilindrico che vedeva era un bacillo, un minuscolo frammento di protoplasma che si muoveva nel sangue per mezzo di sottili flagelli che si estendevano dall'involucro della cellula. Quei flagelli capillari remigavano rigorosamente in mezzo al liquido e facevano muovere il bacillo.
Rimase a guardare a lungo nel microscopio, incapace di pensare o di continuare la ricerca.
Tutto quello che riusciva a pensare era che là, sul vetrino, c'era la causa del vampirismo. Tutti i secoli di paurosa superstizione erano stati annullati nel momento in cui aveva visto il germe.
Gli scienziati avevano avuto ragione, quindi; i batteri erano in causa. C'era voluto lui, Robert Neville, trentasei anni, superstite, per completare l'indagine e scovare l'assassino: il germe all'interno del vampiro.
D'un tratto il peso di una massiccia disperazione gli ricadde addosso. Era un colpo superiore alle sue forze: aveva avuto la risposta quando era ormai troppo tardi. Cercò disperatamente di combattere l'avvilimento, ma senza riuscirvi. Non sapeva da dove cominciare, si sentiva del tutto impotente di fronte a quel problema. Come poteva sperare di curare coloro che ancora vivevano? Ignorava tutto dei batteri.
"Bene, imparerò!" si disse furente. E si costrinse a studiare.
Certe varietà di bacilli, quando le condizioni di vita diventano sfavorevoli, sono capaci di creare in modo autonomo dei corpi detti spore.
Quello che fanno è di condensare il loro contenuto cellulare in un corpo ovale protetto da una spessa parete. Questo corpo, una volta completato, si distacca dal bacillo e diventa una spora libera, di eccezionale resistenza ai mutamenti fisici e chimici.
In seguito, quando le condizioni diventano più favorevoli per la sopravvivenza, la spora germina, riportando in vita tutte le qualità del bacillo originale.
Robert Neville stava in piedi davanti all'acquaio, gli occhi chiusi, le mani strette sul bordo. "Dev'essere lì, la spiegazione" si disse con insistenza, dev'essere lì. Ma qual è?
"Supponi, argomentò, che il vampiro non abbia sangue. Allora le condizioni per il bacillo vampiris sarebbero sfavorevoli."
"Per proteggersi, il germe sporula; il vampiro cade in coma. Poi, quando le condizioni tornano a essere favorevoli, il vampiro riprende a camminare con il corpo immutato."
Ma come poteva sapere il germe quando c'era del sangue? Picchiò con furia un pugno sull'acquaio. Riprese a leggere. Doveva esserci una spiegazione; lo sentiva.
I batteri, non opportunamente alimentati, hanno un metabolismo anormale e producono batteriofagi (proteine inanimate, autoriproducentisi). Questi batteriofagi distruggono i batteri.
Quando il sangue fosse venuto a mancare, il bacillo avrebbe avuto un metabolismo anormale, avrebbe assorbito acqua e si sarebbe gonfiato per poi esplodere e distruggere tutte le cellule.
Di nuovo la sporulazione; doveva entrarci.
"D'accordo, supponi che il vampiro non vada in coma. Supponi che il suo corpo si decomponga senza sangue. Il germe potrebbe ancora sporulare e...
"Sì! le tempeste di polvere!"
Le spore liberate sarebbero state trasportate dalle tempeste. Avrebbero potuto fermarsi in minuscole abrasioni della pelle causate dalle incrostazioni di polvere. Una volta nella pelle, la spora avrebbe potuto germinare e moltiplicarsi, scindendosi. Mentre questo processo progrediva, i tessuti contaminati sarebbero stati distrutti e i canali ostruiti dai bacilli. La distruzione dei tessuti cellulari e dei bacilli avrebbe liberato corpi velenosi e decomposti nei tessuti sani circostanti. Finalmente i veleni avrebbero raggiunto la circolazione sanguigna.
Processo completo.
E tutto questo senza vampiri dagli occhi sanguinei incombenti sui letti delle eroine. Tutto questo senza pipistrelli che aleggiano contro le finestre dei castelli, tutto questo senza soprannaturale.
Il vampiro era reale. Soltanto che la sua vera storia non era mai stata raccontata. Considerando questo, Neville rievocò le epidemie storiche.
Ripensò alla peste di Atene. Era stata molto simile all'epidemia del 1975. Prima che fosse possibile far qualcosa, la città era caduta. Gli storici avevano parlato di peste bubbonica. Robert Neville era incline a credere che la causa fosse invece il vampiro.
No, non il vampiro. Finora, a quel che sembrava, quello spettro astuto e furtivo non era altro che uno strumento del germe, così come i vivi innocenti che erano stati originariamente infettati. Il malvagio era il germe. Il germe che si nascondeva dietro oscuri veli di leggenda e superstizione, spargendo la sua peste mentre la gente arretrava di fronte alle proprie paure.
E che dire della peste nera, quell'orribile flagello che aveva percorso l'Europa medievale, lasciandosi dietro un tributo pari a tre quarti della popolazione?
Vampiri?
Alle dieci di quella sera, la testa gli doleva e si sentiva gli occhi come calde masse di gelatina. Scoprì di avere una gran fame. Prese una bistecca dal congelatore e, mentre questa cuoceva, fece una rapida doccia.
Trasalì quando un sasso colpì la villetta. Poi fece un sorriso storto. Era stato così assorto per tutto il giorno che aveva dimenticato il branco che si aggirava intorno a casa sua.
Mentre si asciugava, si rese conto all'improvviso di non sapere quanti dei vampiri che giungevano di sera fossero fisicamente vivi e quanti tra essi fossero completamente attivati dal germe. Strano, pensò, che non lo sapesse. Dovevano essercene di tutti e due i tipi, perché ad alcuni di essi aveva sparato senza successo, mentre altri erano stati messi fuori combattimento dai suoi colpi. Ne dedusse che i morti erano in qualche modo capaci di resistere alle pallottole.
Il che portava a un'altra domanda. Perché quelli vivi venivano alla sua casa? Perché soltanto quei pochi e non tutti quelli della zona?
Bevve un bicchiere di vino insieme alla bistecca, meravigliandosi di come fosse tutto saporito. Il cibo di solito pareva sapesse di legno. "Oggi mi dev'essere venuta fame" pensò.
Inoltre, non aveva bevuto nemmeno una volta. Cosa ancora più fantastica, non ne aveva nemmeno sentito il bisogno. Scosse la testa. Era ovvio che l'alcool, per lui, era soltanto un sollievo emotivo.
Mangiò la bistecca fino all'osso, e ripulì perfino questo. Poi il resto del vino lo portò con sé nel soggiorno, accese il giradischi, e sedette in poltrona con un sospiro di stanchezza.
Rimase seduto ad ascoltare la Suite 1 e 2 del Dafni e Cloe di Ravel, con tutte le luci spente a eccezione del cono di luce sul pavimento di legno. Si sforzò di dimenticare per un poco tutto quel che riguardava i vampiri.
Più tardi, però, non resisté alla tentazione di dare un'altra occhiata al microscopio.
"Bastardo" pensò quasi con affetto, osservando il minuscolo mucchietto di protoplasma che vibrava sul vetrino. "Piccolo sporco bastardo."
12
Il giorno seguente fu un disastro.
La lampada solare uccideva i germi del vetrino, ma questo non gli dette nessuna indicazione.
Mescolò il solfuro di allile con il sangue infetto e non accadde nulla. Il solfuro di allile fu assorbito, ma i germi rimasero in vita.
Passeggiò nervosamente per la camera da letto.
L'aglio li teneva lontani e il sangue era il fulcro della loro esistenza. Eppure, mescolando l'estratto d'aglio con il sangue, non succedeva niente. Strinse con rabbia i pugni.
"Aspetta un momento: quel sangue proveniva da uno dei viventi."
Un'ora più tardi possedeva un campione dell'altro tipo. Lo mescolò con il solfuro di allile e lo guardò al microscopio. Non accadde nulla.
Gli sembrò che la cena volesse tornargli su.
E il paletto, allora? Non riusciva a trovare altra spiegazione che all'emorragia, eppure sapeva che non c'entrava. Quella donna maledetta...
Si provò per metà del pomeriggio a pensare a qualcosa di concreto. Finalmente, con un ringhio, rovesciò il microscopio e andò precipitoso nel soggiorno. Si lasciò cadere sulla poltrona e prese a tamburellare impazientemente con le dita sul bracciolo.
"Brillante, Neville", pensò. "Sei fantastico. Il primo della classe." Rimase seduto mordendosi le nocche. "Diciamo la verità" pensò avvilito "il cervello ti è andato in pappa da molto tempo. Non riesci a pensare per due giorni di seguito senza perderti per strada. Sei inutile, non vali niente, uno sfacelo, una frana."
"D'accordo", rispose con un'alzata di spalle, "diamoci un taglio. Torniamo al problema." E così fece.
"Ci sono determinate cose stabilite" riepilogò a se stesso." Esiste un germe, si trasmette, la luce solare lo uccide, l'aglio ha un certo effetto. Alcuni vampiri dormono nel terreno, il paletto li uccide. Non si trasformano in lupi né in pipistrelli, però alcuni animali accolgono il germe e diventano vampiri.
"D'accordo."
Fece un elenco. In testa a una colonna scrisse BACILLI, in cima all'altra mise un punto interrogativo.
E cominciò.
La croce. No, non poteva aver niente a che fare con il bacillo. Semmai, aveva un effetto psicologico.
Il terreno. Poteva esserci nel terreno qualcosa che aveva effetto sul germe? No. Come poteva penetrare nel sistema circolatorio? Inoltre, ben pochi tra loro dormivano nel terreno.
Deglutì mentre aggiungeva la seconda voce alla colonna del punto interrogativo.
L'acqua corrente. Poteva essere assorbita attraverso i pori e... No, era stupido. Uscivano fuori alla pioggia e non l'avrebbero fatto se questa avesse nuociuto loro. Un altro appunto nella colonna di destra. La mano gli tremava un poco nello scrivere.
Luce solare. Cercò invano di provare soddisfazione dall'inscrivere una parola nella colonna desiderata.
Il paletto. No. Deglutì. "Attento" si ammonì.
Lo specchio. Santo cielo, come poteva avere qualcosa a che fare uno specchio, con i germi? Il frettoloso scarabocchio nella colonna di destra era quasi illeggibile. La mano gli tremò ancora un poco.
L'aglio. Rimase seduto e strinse i denti. Doveva aggiungere almeno un'altra parola alla colonna dei bacilli: era quasi un punto d'onore. Sforzò il pensiero sull'ultima voce. Aglio, aglio. Doveva avere un effetto sui germi. Ma come?
Cominciò a scrivere sulla colonna di destra, ma, prima che avesse finito, l'ira eruppe dal profondo come lava dalla bocca di un vulcano.
"Maledizione!"
Appallottolò il foglio di carta nel pugno e lo scaraventò lontano. Si alzò, rigido e nervoso, guardandosi intorno. Avrebbe voluto spaccare qualcosa, qualunque cosa. "Così, pensavi che il tuo periodo frenetico fosse finito, vero?" si rimproverò, precipitandosi in avanti verso il bar.
Poi si riprese e si fermò. "No, no, non cominciare" si disse. Si passò le mani tremanti tra i lisci capelli biondi. Deglutì convulsamente e rabbrividì per la smania repressa di violenza.
Il rumore del whisky che gorgogliava nel bicchiere lo irritò. Rovesciò la bottiglia e il whisky ne venne fuori zampillando, riversandosi tutto intorno al bicchiere e sul ripiano di mogano del bar.
Ingollò tutto il bicchiere d'un colpo, la testa arrovesciata, con il liquido che gli scorreva lungo il collo.
"Sono un animale!" esultò. "Sono un animale stupido, idiota e voglio bere!"
Vuotò il bicchiere, poi lo lanciò attraverso la stanza. Rimbalzò sulla libreria e finì a rotolare sul tappeto. "Ah, così non vuoi romperti, non vuoi!" si irritò tra sé, balzando sul tappeto per infrangere il bicchiere sotto i tacchi.
Poi si girò di scatto e tornò barcollando verso il bar. Si riempì un altro bicchiere e lo vuotò. "Vorrei avere un narghilè pieno di whisky!" pensò. "L'attaccherei a una maledetta cannuccia per risucchiare whisky fino a farmelo uscire dalle orecchie! Fino a nuotarci dentro!"
Scaraventò lontano il bicchiere. "Troppo lento, troppo lento, maledizione!" Bevve a garganella dalla bottiglia, tracannando con furia, odiandosi, punendosi col bruciore del whisky che gli scendeva rapido nella gola.
"Voglio soffocarmi" infuriò. "Voglio strangolarmi, voglio annegarmi nel whisky! Come, nel Riccardo III, Clarence nella sua botte di malvasia, voglio morire, morire, morire!"
Scaraventò la bottiglia vuota attraverso la stanza e questa si infranse contro la stampa. Il whisky corse lungo i tronchi degli alberi e sul terreno. Traversò a gran passi la stanza e raccolse un frammento della bottiglia rotta. Colpì la stampa e il filo tagliente incise l'immagine strappandola dal muro. "Ecco!" pensò, respirando con affanno. "Questo è per te!"
Scagliò via il vetro poi abbassò lo sguardo avvertendo un dolore sordo alle dita. Si era tagliato profondamente.
"Bene!" esultò maligno, e premette la ferita dai due lati fino a farne sgorgare il sangue che cadde a grosse gocce sul tappeto. "Muori dissanguato, stupido e inutile bastardo!"
Un'ora dopo era completamente ubriaco e giaceva sul pavimento con un sorriso idiota sul volto.
"Il mondo è andato a farsi fottere. Niente germi, niente scienza. Il mondo è in braccio al soprannaturale, è un mondo soprannaturale. Vampiro Vogue, La Domenica del Mannaro e Il Resto del Vampiro. I dolori del giovane Jekyll, Un vampiro tutto nudo, e La morte è una cosa meravigliosa. Un paletto nel cuore, e un Lachrima Draculae."
Rimase sbronzo per due giorni e progettò di rimanerlo da lì all'eternità o alla fine della riserva universale di whisky quale che fosse arrivata prima.
E avrebbe anche potuto farlo, se non fosse accaduto un miracolo.
Accadde la terza mattina, quando uscì barcollando sotto il portico per vedere se il mondo ci fosse ancora.
C'era un cane che raspava nel prato.
Nell'istante in cui lo udì aprire la porta d'ingresso, il cane smise di annusare tra l'erba, alzò la testa con uno scatto di paura e saltò di fianco con un guizzo di scarne membra.
Per un momento Robert Neville ne fu tanto stupito da non potersi muovere. Rimase come pietrificato, a osservare il cane, che traversava zoppicando e in fretta la strada, la coda sottile tra le gambe.
Era vivo! Di giorno! Si lanciò in avanti con un grido strozzato e per poco non finì disteso sul prato. Inciampò e agitò le braccia per recuperare l'equilibrio. Poi si riprese e cominciò a correre dietro al cane.
«Ehi!» lo chiamò, rompendo con la sua voce rauca il silenzio di Cimarron Street. «Torna qui!»
I suoi passi risuonarono sul marciapiede e sulla strada, ogni passo gli si ripercuoteva nella testa. Il cuore gli batteva pesantemente.
«Ehi!» chiamò ancora. «Vieni qui, bello.»
Dall'altro lato della strada, il cane si affannava traballando lungo il marciapiede, la gamba posteriore destra ritratta e le unghie scure che clicchettavano sul cemento.
«Vieni qui, bello, non voglio farti del male!» gridò ancora Robert Neville.
Avvertiva già una fitta al fianco e nel correre la testa gli doleva. Il cane si fermò un momento e si voltò indietro. Poi corse via tra due villette e Neville per un attimo lo vide di fianco. Era grigio e marrone, un bastardo, l'orecchio sinistro gli pendeva a brandelli, il corpo sparuto tremava nella corsa.
«Non scappare!»
Non avvertì il tremito isterico della propria voce nel gridare quelle parole. Quando il cane scomparve tra le due villette, la voce gli si strozzò in gola. Con un mugolio di paura arrancò più in fretta, ignorando il malessere del doposbronza, dimenticando tutto nel bisogno di raggiungere quel cane.